L'arte a Correggio dal XV al XIX secolo - J. Bentini

Prima dell'Allegri

Correggio suona da secoli come denominazione del luogo destinato a dare i natali ad uno degli artisti più famosi ed acclamati della Rinascenza italiana: Antonio Allegri. E a fianco del celebre pittore, quali indiscussi signori del piccolo quanto rinomato feudo padano, sono ormai acquisiti largamente i nomi di Nicolò da Correggio e di Veronica Gambara, possessori di quelle virtù elette che un sovrano e una signora dei tempi erano tenuti ad esercitare: spirito guerriero, capacità politiche, ma anche diplomazia e squisitezza letteraria. Ora se non è lecito parlare, per ovvie ragioni, di una storia delle arti figurative e materiali correggesi, è pur possibile stabilire dei limiti e dei contenuti ad una vicenda artistica che ruota ovviamente per lungo tempo intorno all'asse dei principi di Correggio, emersi da antica famiglia di vassalli canossani, già consolidati nel loro dominio a partire dal X secolo. Come altre signorie padane che trovano sviluppo nella regione in assenza di un grande centro capace di aggregare le città fra loro, anche Correggio opera nel senso di una costante politica di sopravvivenza esercitando la prassi dell'accordo e dell'alleanza con i vari potentati italiani e stranieri, e stabilendo di volta in volta scelte preferenziali in funzione della conservazione dell'unità del feudo che aveva ottenuto l'investitura imperiale da Federico II, già nel 1452. "Sotto questo profilo i da Correggio adottano la linea del doppio binario: da un lato stabilizzano rapporti di fedeltà e di collaborazione con gli Estensi, che sono i più importanti e forti vicini, dall'altro si appoggiano a potentati lontani (a seconda delle contingenze politiche, il ducato di Milano o la repubblica di Venezia) per cercare protezione dalle mire ostili dei vicini e completare così il sistema della loro precaria indipendenza. Pur definendo alleanze, patti di aderenze o riconoscimenti di superiorità, essi tengono ogni volta a rivendicare quei margini di indipendenza e di autogoverno che non scalfiscono la fisionomia di Correggio come stato signorile". Alberto Ghidini così sintetizza la situazione di questa signoria nel periodo della Rinascenza, non senza puntualizzare lo stato di relativa autonomia data da un miglioramento della situazione economica fondata sull'aumento della produzione agricola. La città aveva assunto un aspetto moderno fino dalla metà del Quattrocento con il conte Manfredo II che aveva eretto baluardi, completato le mura civiche, costruito ospedali e quella nobilissima chiesa in forma tardogotica dedicata a san Francesco che reca ancor oggi nei capitelli gli stemmi del principe e della moglie Agnese. Nonostante le supposizioni che possono suggerire a fianco di tanto impegno edilizio un identico fervore artistico o manifatturiero, non ci sono testimonianze concrete sufficienti per tracciare la reale situazione correggese del settore figurativo, almeno fino alla realizzazione del più importante monumento della città: il Palazzo dei Principi. Ad ogni buon conto è bene ricordare come un Bernardo di Luchino da Correggio dipingesse a Reggio nelle stanze degli Anziani; un Bartolomeo da Ferrara detto Biason eseguisse un Crocifisso per la chiesa di San Domenico; Baldassarre Lusenti decorasse a fresco la cappella di Sant'Orsola e vari pittori di Correggio, fra cui tali Antonio e Latino, dipingessero nel castello di Novellara il gabinetto per Costanza, figlia di Giberto da Correggio e moglie di Alessandro Gonzaga; infine, è bene ricordare Antonio Bartolotti degli Ancini, presso il quale si sarebbe formato giovinetto lo stesso Allegri, del quale non resta però alcuna traccia sicura. L'assegnazione al Bartolotti del fregio di putti in una sala al piano terra del Palazzo dei Principi, voluta dalla tradizione locale, è tutta da verificare nei fatti; è affresco invero di assai modesta conduzione, se mai eseguito sulle tracce del Correggio, e non certo di esso creditore. Solo nella chiesa di San Francesco, la cui costruzione risale al 1469, possiamo ritrovare scarne testimonianze di una rinascenza artistica nei rilievi dei capitelli, scolpiti da Antonio da Reggio in forme arcaiche assai ritardate sulla scultura bolognese e ferrarese dell'epoca, che già si attestano quali episodi di notevole ritardo rispetto ai modelli toscani. La rudimentalità fabbrile che contraddistingue le figuline reggistemmi, definite volumetricamente a tutto tondo, tradisce un'insistita aderenza alla scultura gotica nei panneggi schiacciati ed aderenti ai corpi, nonché nella rigida articolazione degli arti. La chiesa stessa, eretta in forme gotiche, ripartita in facciata e nell'interno secondo l'ortodossia francescana, ci rimanda contestualmente al cantiere tardomedievale e a quella concezione di lavoro di costante e dinamico affiancamento di maestranze che verrà superata da lì a poco dal rigore unitario del modello umanistico ferrarese. Assai poco significativo appare anche il bassorilievo in terracotta policroma raffigurante la Madonna della Rosa posto dietro l'altare maggiore della chiesa omonima, ricavato in forme rozze e ingenue a significare valore di un ex voto; l'edicoletta a sportelli dipinti recante all'interno figurine intagliate a tutto tondo, dorata e policroma, conservata nella chiesa di San Francesco, rimanda a manufatti artistici di area padana sulla scia della cultura ritardata tardogotica. Di maggiore qualità il Cristo deposto della stessa chiesa, di fattura ancora goticizzante, da attribuire ad artista d'oltralpe. Di tangenze o commistioni fra cultura emiliana e cultura lombarda, all'interno di quella vasta porzione della regione che dal parmense tocca i territori reggiani di pianura fino alla collina modenese, è ormai possibile parlare con certezza dopo gli studi più recenti e soprattutto alla luce dei ritrovamenti e dei restauri operati nelle dimore signorili; non solo il caso di Torrechiara, il più noto, ma i castelli di Finale, di Vignola, di San Martino in Rio, di Carpi, presentano richiami alla tradizione figurativa araldica e cavalleresca lombarda di matrice tardogotica, fino al caso esemplare del più tardo Palazzo Fossa di Reggio Emilia con le figure di uomini armati affrescate nelle finte merlature, evidenti rimandi ai modelli bramanteschi di Casa Panigarola. Sono considerazioni ancora poggianti su segni superstiti di relativa rarità, anche se di aulica grandezza, ma facilmente giustificabili dalla conoscenza dei rapporti che le signorie emiliane, specie dei da Correggio, istituirono nella seconda metà del Quattrocento con i Visconti. La fine del XV secolo costituisce già di per sé argomento di complessa interpretazione per i centri gravitanti intorno alle capitali della cultura, in costante ricambio fra Ferrara, Bologna e Mantova. La presenza di un fregio, purtroppo in pessimo stato di conservazione, segnalata in un vano del sottotetto del Teatro Comunale di Correggio, là dove sorgeva il vecchio Palazzo di Nicolò, ribadisce la presenza di maestranze attive per la corte: si tratta di alcune figure di cavalieri su fantastiche cavalcature, di non facile lettura ma comunque condotte con scioltezza di segno, unite a formare una sequenza modulare di soggetti figurativi senza pretesa di racconto, uscenti da vasi dalle cui anse fuoriescono, annodate, le code delle cavalcature. Di una connessione con la cultura figurativa di ambito bentivolesco della prima decade del secolo successivo, testimonia una Santa Lucia dipinta ad affresco nella chiesa di San Francesco, assai dilavata, ma ancora ben interpretabile nelle forme solide ed aggraziate. Essa attesta come anche Correggio si ponesse entro quella cultura di elegante respiro che contraddistingueva tanto il clima ferrarese tra la fine del Quattrocento e il primo decennio del secolo successivo, quanto quello bolognese della corrente del Costa, del Francia e del più mite Ercole Banci, penetrato poi in Emilia fino a Parma. A proposito di quest'ultimo artista non sarà inopportuno ricordare la presenza di due tavole raffiguranti i Santi Simone e Sebastiano (superstiti di una composizione di più ampie dimensioni), che si trovano oggi nella chiesa dei Cappuccini di San Martino in Rio, a pochi chilometri da Correggio. Un punto di riferimento per la Santa Lucia correggese potrebbe essere costituito da quel Luigi Anguissola di Reggio Emilia, attivo anche per la contea di Novellara, recentemente ricostruito in sede critica quale parallelo agli esiti del carpigiano Marco Melloni. Quanto ai protagonisti del casato dei da Correggio, la personalità di Nicolò Postumo, con i suoi intrecci con la capitale estense, dovette essere egemone nell'accentuare ogni virtù di committenza e di scelta stilistica anche nel momento del difficile ricambio generazionale degli artisti a Ferrara negli ultimi anni del governo di Ercole I. Se il tratto comune fra essi è il ceppo robertiano, fu un artista cremonese, Boccaccio Boccaccino, a tenere il primato sui più giovani Maineri, Coltellini, Panetti e Garofalo, fino a condizionare la prima formazione di artisti che si stabiliranno in Romagna: gli Zaganelli. La decorazione ad affresco dell'oratorio della Concezione in Ferrara, che ruota intorno all'anno 1500, è una palestra per tutta la nuova generazione, all'interno della quale si pone anche l'ormai anziano Baldassarre d'Este, attivo pure a Reggio Emilia, con l'ancora misterioso Lazzaro Grimaldi. Una chiave di lettura ad indirizzo ferrarese della cultura figurativa e architettonica della vicina Reggio Emilia è già stata avanzata in sede critica, con indirizzi non secondari di presenze lombarde: si allude al pittore e architetto milanese Cesare Cesariano, documentato in città nel 1503, poi esule a Parma e a Ferrara. Ora il 1508 segna il completamento della prima fase dei lavori del nuovo Palazzo dei Principi di Correggio, per il quale si fa ripetutamente il nome dell'architetto Biagio Rossetti; del 1513 è invece l'inizio della maestosa fabbrica del San Quirino, ad esso confinante. Il fervore costruttivo del conte Nicolò aveva già investito una intera area urbana, proponendo un invaso architettonico di modello neoplatonico da piccola città ideale. "Riassetta le fronti ad ovest dei palazzetti ausiliari e progetta ad est una sequenza di alto fregio sino al torrione di cinta; per primo realizza, in proprio e per sé, un palazzo degno dell'umanesimo [ ... ] Sorgente dove ora sorge il teatro, fu quello davvero un luogo di intensa vita sociale e culturale, ed ebbe le forme evocative e acconcie, così come ci appaiono dalla mano attenta del cronista pittore che eseguì nel '600 l'assonometria cittadina per il principe Siro, palazzo di canti e spettacoli, un vero palazzo teatro" (G. Adani). La dimora famigliare venne ultimata nell'anno stesso della sua morte, coincidente per sorte con le nozze di Veronica Gambara con Giberto X di Correggio, vedovo di Violante Pico, e il suo stabilirsi in città. L'educazione di Nicolò, avvenuta fra Ferrara, presso la corte dello zio Borso d'Este, e Milano, non poteva non riflettersi nel programma di interventi urbanistici a Correggio, investita da un piano di nuovi arricchimenti edilizi e viari certo non paragonabili per ordine di grandezza a quelli ferraresi, ma pur tuttavia rispondenti ad una seria unità tesa a coniugare rispetto del preesistente, aulicità di forme e funzionalità d'uso, lontano da ogni magniloquenza. Senza entrare nel merito dei riferimenti frequenti e sistematici con forme architettoniche ferraresi, sono forse opportune alcune considerazioni sullo splendido portale d'accesso, messo in relazione convincentemente con altri manufatti riferiti alla perizia progettuale del Rossetti. Quest'ultimo lavorò del resto nel 1498 alla rocca di Brescello e realizzò il disegno per il palazzo in Montecchio; nel 1503 soggiornò nella vicina Carpi, tutte notizie che avvalorano la fama dell'architetto ferrarese, certo superflua per giustificare l'amicizia con il signore di Correggio con il quale dovette essere in intimità nella capitale estense per lungo tempo, come testimonia anche quella nota rinvenuta in un regesto del 1490, concernente il patrocinio proprio da parte di Nicolò per la concessione ducale alla costruzione della propria abitazione. Il portale ripete forme già sperimentate a Ferrara, a cominciare da quella esemplare in Palazzo di Schifanoia, assegnata a Francesco del Cossa. Quest'ultimo è modello strutturale per numerosi esempi del primo Cinquecento estense, arricchito nello specifico da rilievi coniugati fra repertori simbolici di varia matrice culturale, rielaborati fino alla commutazione fantastica propria della grottesca. Lo stato attuale dei rilievi correggesi, alquanto oscurati da strati spessi di polvere secolare, non permette una lettura puntuale delle decorazioni delle paraste e degli altri elementi architettonici scolpiti. Una fotografia ritoccata ad acquarello del 1889, eseguita da Jotti Bindo, aiuta nella interpretazione dei grotteschi e delle fasce a bassorilievo, improntate ad una esecuzione raffinata con un forte equilibrio fra le parti. Tecnicamente un paragone può essere istituito con i bassorilievi del Palazzo Zatti-Rondinelli, affacciato sulla piazza Ariostea di Ferrara, o con le sottili decorazioni della vera da pozzo con lo stemma estense, un tempo nel cortile del Palazzo dei Diamanti. La supposizione che i lapicidi o gli scultori attivi a Correggio siano di cultura ferrarese è ancora spendibile soprattutto in ragione dell'apparato decorativo. Quest'ultimo, in particolare nelle lesene interne, nella fascia dell'arco e nella trabeazione, dispiega un repertorio figurativo e modulare tipico dell'architettura dipinta nelle tavole della scuola ferrarese, a partire dagli esempi robertiani fino a quelli capziosissimi del Maineri e del Panetti. Anche la fascia sovrastante il camino al piano superiore del Palazzo dei Principi e le mensole di appoggio, pur eseguite con minore accentuazione espressiva, rimandano alle fasce dei camini del salone d'onore del Palazzo dei Diamanti di Ferrara, nel quale predomina però l'apporto di una cultura più allargata, cui non è estranea la figura di Alfonso Lombardo, artista impegnato presso il duca Alfonso I nella grande impresa dei "camerini" del castello. La data 1508 figura nel fregio della sala del Camino al piano nobile del palazzo, sotto un soffitto a cassettoni dipinto con decori a figure grottesche su fondo scuro. Si tratta di una sequenza monocroma, su fondo blu, di tritoni fra sirene caudate con piedi caprini, intente a suonare strumenti musicali e alternate a faunetti e a maghi contrapposti, uscenti in eleganti teste di giovinetti e giovinette cortigiani, intrecciati a loro volta in volute di fogliami. Al centro di uno dei lati corti del fregio è dipinto lo stemma di Borso da Correggio e di Francesca di Brandeburgo, responsabili della costruzione della dimora: quattro tavolette pensili registrano la data di esecuzione e tre sigle, non tutte di facile decodificazione. Il compartimento dei lacunari del soffitto e quello delle decorazioni, per restare nello stesso ambito tipologico, rimandano alle versioni ferraresi dei soffitti del piano nobile del Palazzo di Lodovico il Moro. Le fasce dipinte sulle travi si ritrovano nel motivo delle nervature del soffitto del Palazzo Trotti, sempre a Ferrara, posteriore di alcuni anni. Se non proprio all'influsso diretto del Garofalo, responsabile delle due imprese citate, è comunque alla cultura ferrarese che occorre addebitare la decorazione delle cassettonature, elegantissima e serrata nei motivi zoomorfi e fitomorfi presenti in accezioni diverse nelle opere su tavola degli stessi pittori di Ercole 1, dal Maineri al Panetti, al Mazzolino. Più intrigante è la fascia sottostante, di qualità altissima, bizzarra eppure scandita con matematica precisione per la quale non è da sottovalutare il suggerimento di una interpretazione anche in direzione dei modelli di Cesare Cesariano che, proprio nel 1508, licenziava le sue grottesche in San Giovannì Evangelista di Parma. Spunti reggiani, datati cronologicamente una decina di anni addietro, sono ritrovabili nell'opera dell'artista collaboratore del Caprioli al Battesimo di Cristo del battistero di Reggio Emilia, per il quale è stata proposta una identificazione anche con Giovanni Antonio Bazzi da Parma. L'artista che dispiega a Correggio il fregio di naiadi e tritoni appare piuttosto esperto della cultura romanizzante delle grottesche, dove però la bizzarria e la vivacità dell'invenzione e del tratto vanno oltre la consonanza con il Ripanda e l'Aspertini; l'accentuazione del chiaroscuro e dei tocchi sapienti di luce accrescono nel fregio i valori di rilievo piuttosto che di grafia incisoria, portando gli effetti verso le bizzarrie anticheggianti del Riccio. Fra le personalità ancora incerte, affidate nella ricostruzione della loro carriera artistica più alle testimonianze documentarie che alle opere superstiti, vi è anche il ferrarese Gabriele Bonaccioli detto il Gabrielletto, più volte nominato nei pagamenti per il casato d'Este, almeno fino al terzo decennio del Cinquecento. Lo si ricorda perché proprio il ritrovamento della ornamentazione della fiancata e della cassa armonica dell'antico organo di Santa Maria in Vado a Ferrara ad esso riferita (oggi occultata dal rivestimento dello strumento barocco) rivelò una decorazione monocroma, purtroppo lacunosa, assai simile a quella correggese. Può ritenersi questa un'ulteriore traccia per l'aggancio con l'area figurativa estense entro la prima quindicina di anni del Cinquecento, quando si è già fortificata la personalità di Garofalo sugli esempi del Mantegna e il leonardismo ha condizionato in facciata Domenico Panetti e lo stesso Bonaccioli. 2 utile poi ricordare come anche una personalità non emergente come il Gabrielletto avesse contatti stretti con Biagio Rossetti, documentati fino dal 1499, andati poi intensificandosi proprio negli anni della costruzione del palazzo di Correggio. Ma che cosa doveva contenere questa nobile dimora, tanto vasta quanto limpida nelle forme architettoniche? 2 indubbiamente uno degli interrogativi che più stuzzicano la curiosità degli studiosi, fino ad oggi bloccata di fronte alla rarità dei reperti e al quasi totale deserto di informazioni archivistiche sulla reale entità di quelle collezioni d'arte di tradizionale memoria. L'esibizione del fasto e il rituale di feste e di ricevimenti non dovette certo mancare nella dimora dei principi correggesi già dal primo Cinquecento, assumendo con la comparsa di Veronica Gambara toni certamente esemplari attraverso acquisizioni, donazioni e traffici, senza contare le committenze specifiche richieste agli artisti. Il cronista seicentesco Bisaccioni, nel descrivere l'affanno della deposizione dell'ultimo principe di Correggio, Siro, descrive il sacco del palazzo privato di gioie e di arredi (affermazione alquanto vaga in verità), la vendita delle argenterie e l'alienazione di parte di lussuose tappezzerie, messe in salvo nella vicina chiesa di San Quirino. Lo studioso correggese del XIX secolo, Quirino Bigi, più volte rifacendosi alle memorie storiche di uno storiografo del XVII secolo (lo riporta Alberto Ghidini nel suo saggio sul Palazzo dei Principi), ritiene che andassero dispersi " ... vasi, statue, tappeti, arazzi, oggetti d'argento e tanti quadri e disegni originali che formavano una delle primarie gallerie di quel tempo". Ora, mentre è da intendere in odore di esaltazione localistica l'ultima affermazione, è certo che l'entità degli arredi e delle raccolte dovette essere paragonabile a quella di altri signori della Padania: i Pio da Carpi o i Gonzaga di Novellara, per i quali la parziale ricostituzione del patrimonio è meglio avviata. Il ritrovamento di un carteggio fra Siro e Cesare d'Este presso l'Archivio di Stato di Modena, dovuto a Giuliana Marcolini, per gli anni 1627-28, permette di puntualizzare almeno il settore degli argenti. Il signore di Correggio presta infatti all'Estense in più occasioni l'argenteria del casato: si tratta di numerosi pezzi da tavola, un servizio per oltre cinquanta ospiti, completo di trentacinque candelieri, di boccali e di ogni altra suppellettile da tavola. 2 poi curioso che il prestito venga esteso alle carrozze con tiro a sei per occasioni importanti quali il passaggio per Modena della contessa di Parma. 2 una conferma che i tempi precedenti a Francesco I non erano proprio rosei per gli ex signori di Ferrara, impegnati all'epoca nel recupero parziale delle raccolte e dei beni della vecchia capitale, non ancora detentori di quella raccolta e di quegli arredi di palazzo che contraddistingueranno la signoria propensa a tesaurizzare arte e manufatti preziosi. Circa la detenzione di dipinti, valgono alcune ipotesi specifiche riferite a pezzi unici, non certo alla esistenza di una vera e propria quadreria: peraltro i casi di Ferrara e di Mantova, i più prestigiosi da emulare, non possono fornire che paragoni per eccesso della situazione delle altre signorie padane del Cinquecento, legate essenzialmente a singoli artisti responsabili di tutto l'ambito figurativo locale (e ciò spesso senza ricambio o successione), oppure committenti di poche opere prestigiose o più spesso destinatarie di opere donate. All'ambito della corte correggese vanno forse riferiti i due capolavori - ormai notori non solo a studiosi, ma al largo pubblico - di Andrea Mantegna e di Domenico Panetti. Il Redentore, dipinto dall'artista mantovano nel 1493, come recita la scritta frammentaria sulla tela, è immagine di intensa spiritualità di valenza arcaica, quasi una riproposta, nella essenzialità del tratto e del disegno, delle antiche icone bizantine; è opera tarda del Mantegna, già collegata dalla critica con la Madonna della Vittoria del Louvre e con la Sacra Famiglia di Dresda. Insieme alla Madonna con il Bambino e san Rocco del ferrarese Panetti, dipinto squisito e delicatissimo da riferire anch'esso alla devozione privata, Il Redentore appartenne con certezza alla famiglia Contarelli di Correggio: resta problematica, in assenza di una sicura storiografia in proposito e di accertamenti documentari, la provenienza dai signori di Correggio, anche se sono noti i rapporti fra il principe Siro e Giulio e Francesco Contarelli che sarebbero venuti in possesso di parte delle proprietà del signore al momento della sua detronizzazione (1630). Secondo i documenti resi noti dal Rombaldi, Siro da Correggio detenne nel 1606 una raccolta di ventiquattro arazzi che dovevano ornare le pareti delle sale del Palazzo dei Principi. Acquirente della serie era stato con ogni probabilità il conte Camillo, verosimilmente intorno al 1600, secondo argomentazioni avanzate di recente in relazione tanto alla manifattura di provenienza quanto alla fortuna dei soggetti: vedute di parchi, cacce, feste rusticane. La vecchia ipotesi che la tessitura degli arazzi correggesi, genericamente detti dei Giardini, fosse da collegare all'attività del fiammingo Rainaldo Duro, fondatore e conduttore di una manifattura proprio a Correggio fra il 1470 e il 1498, non trova oggi nessun fondamento. Certo i principali committenti di Rainaldo furono proprio i principi di Correggio, in particolare Nicolò e sua moglie Cassandra, ma la dotazione degli arazzi in questione viene attestata non prima dell'ultimo ventennio del XVI secolo, in ragione delle citazioni da stampe fiamminghe e dell'autore, con ogni probabilità Cornelius Mattens, che sigla con la marca di Bruxelles bordure di panni analoghi. Il riconoscimento iconografico della serie superstite, rapportabile ad episodi mitologici tratti dalle Metamorfosi di Ovidio, ha infine arricchito le conoscenze su questi pezzi di raffinata tessitura, qualificati non solo come arredi decorativi di rivestimento ma anche quali immagini edeniche dell'antico allusive all'armonia del governo e della vita del signore, nobilitato a rinnovare una perduta età dell'oro. Il "genius loci" Presumibilmente nel 1489 (e già cominciano all'origine i problemi interpretativi di fronte ad una recente opinione che sposta la data al 1493), nasce a Correggio Antonio Allegri, la cui formazione di artista è ancora oscura, così come la produzione dei Primi dipinti per i quali la discussione è tuttora aperta. Correggio dovrebbe essere stata sede della sua bottega, almeno nel periodo giovanile e prima del 1523, anno nel quale l'artista andò ad abitare a Parma, in borgo Pescara. P noto come per la città natale egli avesse prodotto opere in seguito emigrate all'estero, vittime prima dell'interesse collezionistico degli Estensi, poi della rovina finanziaria di questi ultimi alla metà del Settecento. E perciò impossibile oggi imbattersi in opere dell'artista se mai si volesse ripercorrere quei luoghi correggesi che la storia ci indica sedi privilegiate ad accoglierle: allo stato attuale delle conoscenze è ormai solo un'aurea riflessa quella che si respira, aperta ad evocazioni e ricostruzioni che solo un genio pari al correggese può ancora provocare. Ma prima di riassumere l'attività dell'Allegri per Correggio non sarà inutile in questa sede ribadire per sommi capi la sua fortuna critica, immensa ed indiscutibile. Era chiaro già nella mente di Giorgio Vasari, alla prima stesura della Vita dell'artista, scritta dopo la sua morte avvenuta a Parma nel 1542, come questi fosse l'iniziatore in Lombardia della "maniera moderna", visione che in qualche modo avrebbe condizionato tutte le successive immagini critico letterarie dell'Allegri, insieme alla interpretazione del carattere, dipinto con quei requisiti di introversione, malinconia, ombrosità e puntigliosità che diverranno poi ricercatezza spinta negli artisti lombardi della "maniera". E nell'escludere per esso un viaggio romano (segnale per lo scrittore toscano di una certa immaturità di stile di fronte ai grandi della pittura centroitaliana), è credibile che il Vasari avesse invece "percepito che la modernità del Correggio si esprimeva in modi che affondavano le radici in un terreno diverso da quello che aveva dato luogo alle opere romane fra il '10 e il '20: avesse capito come fosse moderno ma anche diverso il suo rapporto con la storia e con la natura; che avesse insomma, e in un certo senso anche suo malgrado, amato quella tenera naturalezza, quella dolce semplicità, quel tono lirico, elevato ma così diverso dalla parlata illustre dei dominatori della scena romana del secondo decennio, dal loro severo richiamo ai grandi sentimenti" (G. Briganti). Dunque il concetto di una primaria differenza fra la natura lombarda ed emiliana e quella centroitaliana è già espresso alla metà del Cinquecento, laddove però si escludeva (e così sarà fino alla sagace intuizione del Mengs) un aggiornamento diretto sul gusto romano, fissato finalmente dal Longhi al 1518, anno di esecuzione della camera di Giovanna Piacenza in San Paolo di Parma, ove il sentimento dell'antico, velato di nostalgica bellezza, già si manifesta compiutamente. Il mutamento di stile dopo la pala di Albinea è ormai generalmente sostenuto da tutta la critica, il cui campo è arricchito oggi dalla scoperta di un affresco in San Benedetto Po che riapre i termini del percorso già problematico dell'artista, suscitando nuove ipotesi attributive. Ma quale romanità del Correggio a San Paolo? L'antichità classica presente nelle finte statue, nei capitelli a testa di montone, nelle stesse cornici architettoniche e nelle soluzioni di innesto e apertura ad una natura ordinata, è cosa ben diversa da quella della capitale papale: tutto appare composto entro uno scenario di ambiguo equilibrio, poiché l'apparente nitidezza dei marmi suggerisce la fisicità stessa della carne, la pietra appare turgida e tenera insieme, compartecipe della vita che emana dalle foglie e dai frutti che si intrecciano nella volta, compresi dall'intrico geometrico del finto pergolato. Che dire poi delle figure (e la letteratura è infinita) che presuppongono sempre uno spettatore e che pongono se stesse intenzionalmente davanti all'occhio di chi guarda per sollecitare un consenso misto di virtù e di armonia? Correggio dunque pur muovendo da accenti romani, saturi di allusioni umanistiche e di misurata geometria, ripercorre quell'invito al colloquio, al coinvolgimento del pubblico che nell'area lombardo-emiliana era già affiorato teatralmente negli esempi mantovani del Mantegna (il dialogo e l'incrociarsi di gesti dei personaggi nell'occhio della volta a cielo aperto della camera degli Sposi), in quelli ferraresi del Garofalo (lo sguardo invitante delle dame e dei paggi che s'affacciano dalla balconata entro la camera del tesoro nel Palazzo di Lodovico il Moro), o ancora in quelli cremonesi del Boccaccino (la muta e dolcissima partecipazione agli eventi sacri negli affreschi della cattedrale di Cremona). Ma è soprattutto l'idea della creazione di uno spazio aperto e dinamico, delimitato da confini in costante trapasso da una partitura all'altra, che rendono il pensiero del Correggio ben altrimenti originale da quello romano, descritto in una sintassi compositiva di lucida quanto perentoria armonia. Questa attitudine dell'Allegri sarà ancora più riflessa, come è noto, nelle opere mature eseguite a fresco, ove il tema centrale del movimento e del continuo variare meteorologico della luce farà da protagonista nell'artificio pittorico delle sapienti costruzioni. Al di là degli omaggi alla Sistina e alle Stanze, più volte ripetuti dalla critica, nella impostazione generale delle grandi cupole la "traduzione [ ... ] degli esemplari romani sta nel rifiuto concettuale di spartire la certezza del suo primato e la sua funzione di essenziale struttura intellettiva della figurazione, privilegiando invece la resa avvolgente e accarezzata delle membra, dei volti, delle nubi, al punto che, ove spiove più forte, la luce smangia e sfoca i contorni, i volumi, immersi in un'aria di cui s'avverte quasi lo spessore" (E. Riccomini). Certamente i due motivi, quello "lombardo" e quello "romano", si intrecciano costantemente in tutta la pittura emiliana proprio a cominciare dalla "modernità" del Correggio: la convivenza, più volte sottolineata, del naturalismo e dell'ideale classico, del sentimento e della poetica statuaria, della fisicità e dell'ordine antico, spesso anche in dissonante equilibrio, ci appaiono proprio il filo conduttore della storia figurativa del luogo fino al tardo Seicento per quel confluire insieme di popolare e di colto, di immediato e di illustre. Questa espressione unitaria dell'arte nasce dalla fusione consapevole delle due posizioni operate dal Correggio, che va ben oltre la dimensione di tenera leggenda provinciale cui a volte l'artista non ha potuto sottrarsi. Non è possibile infatti trarre nessuna discendenza diretta e immediata dal suo genio, poiché egli non lasciò immediate eredità tangibili: eppure a lui hanno fatto riferimento i prototipi e i modelli di intere ininterrotte generazioni, nell'obbligo per critici e artisti del viaggio a Parma, da Barocci ad Annibale Carracci, da Stendhal a Diekens, da Rubens a Reynolds fino a Ruskin, a Canova, a Mengs. Il primato venne tenuto, come si sa, per i decenni successivi al 1530, dal gusto lunare e dalla grazia leggiadra del Parmigianino, che improntò di sé i maggiori centri della cultura europea, mentre la fortuna del Correggio stentò ad emergere in contrasto con il mondo di regole controriformate del tempo: la riscoperta e il conseguente trionfo della sua arditezza si devono risaputamente agli anni della riscoperta dei valori umani e naturali della riforma dei Carracci e dello sperimentalismo lucido del Barocci. Dopo questo avvio, Correggio rinasce nelle realizzazioni dei suoi epigoni tardivi, imitatori spesso fino alla replica o alla copia delle sue figure più celebri, in un crescendo di affermazioni della sua "vaghezza" almeno fino al Cignani e al Franceschini, con il declino della sua fortuna ai tempi di Ruskin e del nuovo mutamento di gusto e di stile. Per decenni, da piccoli centri padani quali Parma e Correggio, prende sempre più forma ed esultanza il linguaggio moderno dell'Allegri dando ragione di una originalità della parlata emiliana (e non solo di quella), differente da quella universale generata a Roma nel pieno Rinascimento. 2 ormai superfluo raccontare come i primi trent'anni del Cinquecento vedano attuarsi nella pianura padana un confronto fra l'imponente linguaggio tardoromano, di valenza universale, e le tante versioni della cultura "naturalistica" lombarda, ciascuna in rapporto dialettico con la capitale e in ricambio costante con Venezia. Le definizioni di eccentrico o di poliedrico al nostro Cinquecento, erede longevo della descrittività gotica e della mania archeologizzante padovana, attento alla grafia tedesca come alla sontuosità degli impasti veneziani, è accettabile proprio nella misura della ritrosia ad accogliere le saldezze unificanti del linguaggio centroitaliano, assorbito peraltro sempre entro un orizzonte di resistenza alle normative classiciste o puriste. E fenomeni di contrasto o di sopravvivenza infondono anche al tempo stesso le arti letterarie, intrise di particolarismo quando non permeate di vernacolo locale. 2 appunto in quest'ambito di cultura complessa che si svolge il percorso artistico di Correggio che tenta l'innesto delle forme romane raffaellesche e michelangiolesche, ancora lontane dall'essere modelli stereotipi a tutta la maniera, sulle radici naturalistiche lombarde, delle cui componenti la più forte è da rintracciare in Leonardo, che egli seppe intendere nei suoi valori chiaroscurali ed espressivi fino ad una particolare interpretazione coloristica dello "sfumato". Dalle prime opere, dove è vivissimo il ricordo del Costa e del Francia, e naturalmente del Raffaello piacentino della Madonna di San Sisto nella struttura compositiva e nell'incentrato psicologismo ingentilito delle figure, l'impresa che lo rivela come decoratore frescante è, verso il 1519, la camera della Badessa nel convento di San Paolo a Parma. Qui l'artista evoca motivi cari al Mantegna nelle figurazioni mitologiche e nei festoni vegetali che chiudono la composizione entro l'ombrello della volta: la scioltezza sintattica dell'insieme mostra, come abbiamo visto, un contatto diretto con il classicismo romano di Raffaello, il cui repertorio umanistico viene però virato sotto forme alessandrine intonate ad un ideale di grazia e di movimento che sarà propria del parmense fino alla fine della sua breve carriera artistica. Nella cupola di San Giovanni Evangelista (1520-23) e soprattutto in quella del duomo di Parma (1526-30) egli realizza uno spazio pittorico fluido, orchestrato secondo una mobilità atmosferica di forme e di colori da superare ampiamente la prospettiva rinascimentale e gettare un ponte in anticipo sull'illusionismo spaziale barocco. Al centro della cupola si impone l'apparizione di Cristo in un gorgo fluttuante di nubi luminose, mentre intorno ruota la teoria degli Apostoli che rimandano imperiosamente all'universo delle Stanze Vaticane e della volta della Cappella Sistina. Una molteplicità di esperienze artistiche sta alla base della invenzione correggesca: il mondo classico è evocato e dispiegato vittoriosamente in un paradiso edonistico di trepide bellezze, animate però ancora dalla linfa della naturalezza lombarda e cariche di emozioni profonde. La concezione antropocentrica del Rinascimento viene enfatizzata e mossa da una inedita e instabile fluidità coloristica che ravviva un mondo immaginario dove umano e divino si compenetrano in una irresistibile giunzione sensuale. Lo stesso immaginario elegiaco e sublimante, non scevro da toni graziosamente erotici e sentimentali, è sotteso ad opere sacre e profane dipinte fra il 1524 e il 1534; dalla Adorazione dei Pastori di Dresda, la celebre Notte amata dal Reni, e dall'orchestratissima Madonna di San Gerolamo (Parma, Galleria Nazionale) fino alle serie degli Amori di Giove eseguiti per il duca di Mantova, preludio alle forme piene e sensualissime di Rubens. La visione panica e teatrale del Correggio, sostanzialmente libera dai linguaggi toscoromani poiché portata a livelli di assoluta armonia sensuale, accompagnerà quella del Parmigianino che si porrà in confronto stimolante con il maestro, alla cui bellezza matura, solare e mitica verrà contrapposta la ricerca di un'eleganza sofisticata ed inquietante. Proprio dalla celebre coppia di artisti parmensi trae linfa quella variante della "maniera" che conquistò le piccole corti e i castelli lungo la via Emilia o sparsi nei centri della pianura, nella aspirazione costante di una preziosità aristocratica tratta dalla fusione fra la variante lombarda e quella toscoromana quale espressione di grandi valori universali, calati però entro la sensualità naturale. Tracciare i movimenti dell'Allegri a Correggio è ancora oggi assai arduo, se non per periodi lunghi o per supposizioni. E certo che l'artista fu sostanzialmente sedentario entro i confini della campagna dell'Emilia occidentale, fatti salvi il soggiorno mantovano e quello romano, di assai breve durata. I documenti che attestano la sua attività di artista o le carte inerenti la vita di famiglia e gli impegni sociali (dettagliatamente riportate in numerose pubblicazioni anche recenti), consentono di evidenziare un uomo con inclinazioni a rispondere alla committenza religiosa, aspetto che si farà preponderante durante il soggiorno parmense. Sembra di potere arguire ad ogni buon conto che dopo l'ipotizzato alunnato presso Francesco Bianchi Ferrari a Modena e la sosta a Mantova per lavorare alla cappella funebre del Mantegna, Correggio fosse relativamente stabile nella sua città natale almeno fino dal 1511. Per cogliere allora quello che sicuramente è stato il momento più illuminato e originale dell'arte locale, non si potrà che ripercorrere per grandi tappe la mappa delle presenze dell'Allegri negli edifici pubblici correggesi, definendola anche in rapporto alle allogazioni aristocratiche o alla produzione da stanza finora a lui attribuita concordemente dalla critica. Va da sé che anche solo l'evocazione delle sue opere dà ai luoghi una impronta di eccezionalità, pari, se non forse maggiore, di quella degli stessi principi di Correggio. Fino al 1515, data di consegna della pala di San Francesco, tutto è ancora piuttosto oscuro, se si eccettua la recente proposta di attribuire all'artista i ritrovati affreschi del refettorio di San Benedetto al Polirone, messi in collegamento con una lettera di Gregorio Cortese del 1510 concernente la sua intenzione di fare dipingere parte del refettorio ad un giovane artista promettente . Un contratto del 1514, trascritto ma non ritrovato in originale, chiama in causa del resto proprio il Correggio per la realizzazione delle portelle dell'organo della stessa chiesa, portelle che ignoriamo siano state poi veramente eseguite. Le prime opere a lui attribuite attestano comunque una formazione eclettica dato il carattere del protagonista che "assimila e ricicla gli spunti esterni in modo prepotentemente autonomo, subordinando la selezione dei modelli a un ideale di grazia inteso come ideologia religiosa prima che fase estetica" (P. Piva). Dal soggiorno mantovano assorbe precise cognizioni della pittura mantegnesca, veneta e ferrarese presente alla corte gonzaghesca di Isabella ma che in parte, forse in tono minore, aveva già potuto avvicinare in casa, fra i centri aristocratici della bassa pianura legati agli Estensi e a Mantova. I primi lavori mantovani condotti in Sant'Andrea (la cupola della cappella del Mantegna e i due tondi del vestibolo) sono da riconnettere con la Madonna della Galleria Estense, che dalla recentissima manutenzione ha acquistato valore per una migliore e più sicura interpretazione. La convinzione che si tratti di una stessa mano si fa così ancor più serrata; l'opera, non priva di incertezze giovanili ma forte nella trattazione del segno e del tratteggio incrociato, soprattutto nei frutti del pergolato e nella figura della Vergine, assume valenze plastiche di grande evidenza. L'affresco, ora staccato, stava risaputamente in San Quirino vecchia di Correggio; venne trasferito dapprima a massello nella chiesa della Misericordia, per passare nel gennaio del 1787 nel Palazzo Ducale di Modena, dove venne sottoposto a trasporto su tela nel 1845. L'incertezza attributiva della scritta del cartiglio, letta ripetutamente nel passato anche come firma del Bartolotti, indica la datazione al 1511, coincidente quindi con il documento che dà il Correggio nella città natale in quell'anno. L'Allegri avrebbe poi dipinto per Veronica Gambara una Erodiade nel 1512, notizia oggi non controllabile; nel 1513 avrebbe eseguito il Ritratto di Giovan Battista Lombardi, medico di Correggio, un cui disegno avrebbe dovuto trovarsi a Reggio Emilia, presso la bottega del Clemente, incaricato di trarne un busto. Questo secondo dipinto è da ricondurre al ritratto già in possesso del vescovo Coccapani di Reggio almeno fino al 1640, anno di compilazione dell'inventario dei suoi beni, prima di passare nelle mani di Francesco I d'Este che, per istigazione di Emilio Testi, l'avrebbe dovuto donare a Filippo IV di Spagna (A. Venturi). Il dipinto ("assolutamente uno de' più bei quadri che siano in Italia") rimase comunque a Modena dove è citato negli inventari ducali fino a quello di padre Ercole Gherardi, redatto nel 1744. Di una attività novellarese dell'Allegri, fra il 1514 e il 1518, parla poi il Davolio a proposito di una schiera di giovani pittori fra i quali il nostro, impegnato a dipingere nelle "camere del Torrione vecchio", all'epoca riadattate in nuovi locali. Prima della pala per i Francescani, Correggio dovrebbe avere realizzato i Santi Pietro, Marta, Maddalena e Leonardo (New York, Metropolitan Museum) per Melchiorre Fassa, destinata alla chiesa di Santa Maria della Misericordia, opera stilisticamente ancora affine al giovanile Commiato di Londra e alle due versioni del Matrimonio di santa Caterina (Detroit, Institute of Arts e Washington, National Gallery), nelle quali è ancora fortissima l'impronta mantegnesca e di Lorenzo Costa (Gould). I nessi con le raffigurazioni peruginesche e raffaellesche sono evidenti nella positura dei personaggi eretti e nella articolazione delle figure disposte a semicerchio, sì che quelle laterali fungono da proscenio. Ma il Correggio, al contrario di Raffaello, le immerge nel naturale; "al limitare di un bosco fittissimo, su di un terreno sgranato di incisi sassi, esse sono ferme come a conversare, ciascuna in sé medesima reggendo un oggetto, il proprio simbolo del martirio. Una tale continuità col naturale e del naturale, soprattutto un rifinito così palese dalla forma proporzionale, statuaria, dalla piega ritmica, vogliono dire che il Correggio è convertito a una differente filosofia, quella plotinica che nel settentrione aveva avuto Leonardo forse come maggiore esponente" (A.C. Quintavalle). Le Madonne intrise di leonardismo, come nel Cristo giovane docente (Bologna, collezione privata) e la Madonna del Castello Sforzesco di Milano che il Gould ha potuto riferire al Palazzo dei Principi di Correggio, fino a quella di Chicago, dovrebbero essere state tutte prodotte dall'artista nel suo atelier correggese, dal quale scaturisce la stessa pala di San Francesco dipinta per Quirino Zuccardi, ordinata nel 1514 e terminata nell'aprile dell'anno successivo. Come è noto, essa rimase sull'altare originario fino al 1638, quando il duca Francesco I di Modena la confiscò facendola sostituire con una copia del Boulanger fra lo scandalo dei correggesi. La reiterata derivazione dalla Madonna della Vittoria del Mantegna, notata da sempre, si unisce alla riproposta di quella Trivulzio o ancora ai modelli romaneggianti per i frutti o per gli angioletti. Di nuovo l'autore ha invertito la costruzione scenica classica involvendo il rapporto fra le figure e corresponsabilizzando con ciò lo spettatore con l'icona: è il preambolo del coinvolgimento ascensionale delle cupole parmensi. Come nel caso dei Quattro santi, è probabile che lo Zuccardi pretendesse quale modello da assumere il modulo umbro-peruginesco, già filtrato dal Costa e dal Francia a Bologna. Almeno fino al 1519, anno di esecuzione della camera della Badessa a Parma, Antonio è documentato e attivo a Correggio. L'assimilazione culturale dell'artista si fa in questi anni tumultuosa e appassionata: già le sue prime opere hanno dimostrato la conoscenza della pittura veneta cui gradualmente si aggiungono gli umori dei ferraresi della prima generazione del Cinquecento a suggestionare il suo animo pronto ad accogliere e a filtrare tutte le novità. Ma se l'operare si svolse all'insegna della disponibilità alla sperimentazione, è vano pretendere di disporre cronologicamente nel tempo le sue opere. Certo alla metà del secondo decennio del secolo il suo rapporto con il giorgionismo, i ferraresi e Leonardo doveva essersi fatto più intenso; ma non vanno con ciò sottostimati i suoi interessi anche per la Toscana, spiegati con la possibile mediazione di Michelangelo Anselmi, reduce a Parma da Siena poco dopo il 1516, o anche attraverso conoscenze più dirette o ancora intrecciate alle relazioni costanti che l'artista ebbe con l'ordine benedettino. Certo il sincretismo etico dell'entourage di Isabella d'Este venne superato a contatto con la provincia "estense", aperta ad infiltrazioni non ortodosse e di lì a poco in odore di eresia nella figura della stessa Veronica Gambara, che tratterà in poesia i temi del rapporto fra fede e opere e quelli della predestinazione. Possono costituire punti di riferimento preciso per il percorso dell'artista proprio due opere realizzate per Correggio e dintorni, intorno alle quali gravitano altre prove di ormai indiscussa attribuzione: si tratta della tela con il Riposo durante la fuga in Egitto con San Francesco (Firenze, Uffizi) e della celebratissima pala di Albinea, oggi nota solo attraverso delle copie. La prima si trovava in origine nella cappella Munari in San Francesco di Correggio, da dove il duca Francesco I d'Este la fece rimuovere sostituendola con una copia: entrata a far parte delle raccolte estensi modenesi, l'opera venne poi barattata con il Sacrificio di Isacco di Andrea del Sarto, offerto dal granduca Medici. Spostata recentemente al 1520 su basi archivistiche e stilistiche (Gould), l'opera dimostra comunque la rielaborazione ormai matura della cultura leonardesca e la conoscenza delle ricerche dei toscani, da Andrea del Sarto a Beccafumi. L'artista trasse con ogni probabilità da questa fonte la più tarda Madonna della Scodella di Parma, proponendo una tavolozza brillante di cromie innovata già nella Adorazione dei Magi braidense, creduta per molto tempo dello Scarsellino: proprio la vivacità coloristica unita alla qualità fastosa del racconto, estranea per lungo tempo al Correggio, possono. avere tratto in inganno l'occhio indirizzandolo verso Ferrara, soprattutto in direzione del Garofalo e del Dosso che andavano sperimentando in quegli anni una salda collaborazione. La pala di Albinea raffigurava la Vergine con il Bambino seduta ai piedi di un gruppo di alberi fra le sante Lucia e Maddalena: una lettera dell'arciprete della chiesa, Guidotti, prova che la esecuzione dell'opera avvenne in Correggio nel 1517. Essa rimase sull'altare fino al 1648, quando venne asportata e consegnata a Francesco 1 d'Este per finire poi dispersa. Qui le assonanze con Raffaello (e non solo con la Santa Cecilia) si fanno più evidenti, superando le stesse ascendenze costesche, involute entro una convessità di distribuzione spaziale ruotante verso lo spettatore. L'indicazione di un quadro dell'artista esistente nella chiesa di San Giorgio in Rio Saliceto nel Seicento, "ammirevolmente stimata bellissima e senza difficoltà originale" ma ritenuta già fino da allora dallo stesso Boulanger incaricato di farne una copia, una replica non autografa, potrebbe spostare ancora più il giudizio sull'artista verso la componente romano-raffaellesca, tanto più evidente nella Maddalena di Londra (National Gallery) che piace immaginare essere stata realizzata per una committenza femminile, magari per la stessa Veronica Gambara, come suggerisce il Piva. Non si dimentichi che il I febbraio del 1519 Antonio si trovava nel palazzo di Manfredo da Correggio, dove veniva stipulato il contratto a suo favore per una donazione dello zio. La Maddalena, ritratta in veste di studiosa, potrebbe alludere allo stato di vedovanza della poetessa Gambara che ancora nel 1528 sappiamo commissionare al Correggio un'altra "Maddalena nel deserto", descritta in una lettera a Isabella d'Este. I legami con il casato dei da Correggio sono del resto ripetutamente riscontrabili nelle carte d'archivio finora ritrovate: nel 1525 l'artista è testimone di un atto del notaio Porta alla presenza del principe Manfredo; nell'ottobre del 1527, per intromissione di Manfredo, ha fine la contesa per la donazione di alcune terre iniziata nel 1519; ancora nel 1534 il pittore è investito come testimone nel contratto di dote per le nozze di Chiara da Correggio col primogenito di Veronica Gambara. Giunge non inaspettato sul declino degli anni 1520 il ritratto femminile di Leningrado, riconosciuto dal Finzi come quello di Ginevra Rangoni, rimasta vedova di Giangaleazzo da Correggio nel 1517 e risposatasi due anni dopo con un Gonzaga. E siamo ancora alle soglie della committenza per la badessa Giovanna a Parma, per la quale la lotta contro l'imposizione della clausura aveva assunto i caratteri di una crociata privata per la libertà contro l'esteriorità vuota delle norme. "Come è stato chiaramente rilevato dal primo storico della Camera di S. Paolo, il dotto padre Ireneo Affò, è alla luce di questa lunga lotta per l'indipendenza amministrativa, sociale e spirituale che si debbono interpretare le decorazioni pittoriche e le epigrafi presenti negli appartamenti di Giovanna da Piacenza. Una tale interpretazione presuppone, da parte della committente, non solo una consuetudine con la letteratura classica, ma anche un particolare amore per i jeux d'esprit per la mistificazione [ ... ]. La società raffinata, in gran parte dominata da donne intellettuali, si dilettava a praticare dei giochi cerebrali che possono essere definiti come una sorta di combinazione di erudizione e di malizia" (Panofsky). Ermetismo ed etica classico-cristiana, lotta e furore, ma anche rivincita e fato, sono i temi simbolici delle immagini parmensi, insistenti nel Correggio fino alla esplosione della forma quando le committenze entrano in un giro pubblico di grande fama tanto da portarlo lontano dalla religiosità silenziosa e interiore che lo aveva indotto a lavorare in gioventù. Dal 1523 al 1530 l'Allegri lavora ai grandi affreschi parmensi di cui già si è detto, precocemente sulla soglia del barocco controriformato. Come ha già sottolineato Riccomini, la teologia della croce diviene teologia della gloria; la "grazia" supera e invera l'ideologia nell'umano, ne riscatta la retorica e i toni celebrativi, tanto da essere utilizzata decenni dopo come posa pacificante e unificante gli animi, aliena da ogni problematicità interiore. Risentono di questo suo nuovo indirizzo anche le pale realizzate nel terzo decennio per chiese e privati: a Modena i quadri famosi per le Confraternite di San Sebastiano e di San Pietro Martire; ancora il mistico Sposalizio di santa Caterina (Parigi, Louvre) tenuto a detta del Vasari Ma tutti i pittori in pregio", posseduto da Francesco Grillenzoni insieme al suo ritratto fatto dall'Allegri stesso; a Parma la Madonna di San Gerolamo e la Madonna della Scodella; a Reggio la Notte, il capolavoro osannato dal Vasari, dallo Scannelli e dalla Scaramuccio fino a Charles des Brosses e a Mengs che giudicava questa opera "una di quelle Pitture che muovono il cuore di chi le mira, sia intelligente, o ignorante; ma assai più dei primi" e ciò perché "l'imitazione del vero è eseguita con tale artifizio, che perde ogni idea di secco, e l'arte è si occulta, che sembra fatto colla maggiore facilità". Le nuove immagini si staccano dall'antico non solo per rinnovamento tematico ma soprattutto per rinnovamento linguistico: in tutte le pale si assiste alla rinunzia della Sacra conversazione per attenersi alla Madonna in gloria collegando illuministicamente l'apparizione divina con la commossa partecipazione sensoriale dei santi. E proprio nella Notte si può cogliere la qualità espressiva della duplice illuminazione, quella naturalistica - di matrice lombarda - e quella che emana dal Bambino - allusione alla irradiazione della grazia divina. Potrebbe fissarsi intorno al 1522 o sul finire degli stessi anni trenta, fra i soggiorni parmensi, la esecuzione del perduto Trittico dell'umanità di Cristo per la chiesa correggese di Santa Maria della Misericordia. L'opera circondava un rilievo raffigurante una Madonna con il Bambino; dimorò sull'altare fino 1612, quando venne acquistata dall'ultimo principe di Correggio, Siro, che alla sua destituzione la affidò ai principi di Novellara dai quali non riuscì più a riacquisirla. Una tela della Pinacoteca Vaticana è considerata copia carraccesca dell'elemento centrale del trittico che deve considerarsi oggi perduto. La composizione raffigurava al centro Cristo in gloria e ai lati il Battista e San Bartolomeo; si credette di identificare il secondo con un dipinto di analogo soggetto già nella collezione Robinson di Londra, ma la irreperibilità attuale della tavola non permette ulteriori precisazioni. Ancora a Correggio, sede stabile dell'artista dal 1530, sono realizzate le opere profane per il duca Federico Gonzaga per farne omaggio a Carlo V, e le Virtù per Isabella Gonzaga. 1 quattro soggetti della prima serie - Danae, Leda, Io, Ganimede - confermano l'interesse del Correggio per la trasformazione degli elementi al contatto di animali o esseri animati, che caratterizza la rielaborazione della filosofia platonica fornita dal Ficino, assai nota nell'ambiente letterario dei principi da Correggio. I cartoni dovrebbero essere stati consegnati agli eredi, che probabilmente ancora nel 1534 li conservavano presso la loro abitazione. Mancano notizie precise su altri quadri che l'Allegri avrebbe realizzato per Correggio o a Correggio negli ultimi anni della sua vita: ignoto è il tema del quadro "bellissimo e raro" che il Vasari testimonia essere stato acquistato da Luciano Pallavicino e inviato poi a Genova; non tutti riconosciuti sono i dipinti dell'Allegri citati nella collezione di Paolo Coccapani a Reggio Emilia; delle diverse opere possedute dai conti di Novellara, citate in un inventario del 1728 pubblicato nella raccolta del Campori, non è possibile conoscere la sorte dopo la dispersione del 1796. Nessun allievo diretto provenne dall'Allegri e dopo la sua scomparsa Correggio non pare avere colto, come del resto l'Emilia tutta, suggestioni immediate di stile se si eccettua Giovanni Giarola, nativo di Fosdondo di Correggio, ritenuto scolaro del Correggio. L'ipotesi è confermata dallo stile delle sue pitture rinvenute a Reggio Emilia, a decoro di palazzi e chiese. La Madonna in gloria con il Bambino e i santi Cecilia e Girolamo, già attribuita erroneamente ad Innocenzo da Imola e un tempo nella chiesa di San Giuseppe Patriarca, sembra essere l'opera cronologicamente più vicina al Correggio giunta fino a noi. Databile poco prima della metà del XVI secolo, la tavola dimostra un certo ritardo sulla cultura raffaellesca padana senza dare segni precisi della eredità del grande maestro. L'ignoto autore amalgama motivi di origine parmense e raffaellesca, riproponendo costruzioni proprie dell'Anselmi e arcaizzando il modello della santa Cecilia, semplificato da una insistente grafia che elementarizza i volumi e riduce la composizione delle figure. Solo nella figura della Vergine assisa sulle nubi l'attenzione si sposta verso esemplari del grande correggese, senza tuttavia apportare nessun approfondimento o rielaborazione. Se il riconoscimento di un Ecce Homo, sempre proveniente dalla chiesa di San Giuseppe Patriarca, quale copia della tavola di analogo soggetto ma di dimensioni minori di Alessandro Bonvicino detto il Moretto (Napoli, Capodimonte) avvalora l'ipotesi di interessi culturali con Brescia, coltivati con ogni probabilità dalla Gambara, bresciana di origine, è la tela di Fermo Ghisoni raffigurante San Giovanni Evangelista e un angelo a significare anche nel Cinquecento una continuazione di interessi verso Mantova quale polo di attrazione culturale per il piccolo centro padano, ancor più di Modena o Reggio Emilia. Queste ultime città sembrano essere invece il punto di riferimento per il vicino feudo di San Martino in Rio, detenuto da un ramo degli Este, come dimostra la bella tavola dell'altare maggiore della chiesa parrocchiale raffigurante San Martino e il povero, databile entro il Cinquecento inoltrato, ma intrisa ancora di quella nodosità arcaica propria degli esemplari del reggiano Nicolò Patarazzi. I secoli moderni Alla fine dell'ottavo decennio del Cinquecento si assiste all'affievolirsi progressivo dell'influenza culturale di Lelio Orsi, destinata ad essere sostituita nello stretto giro di pochi anni da quella dei bolognesi Camillo Procaccini, autore del Giudizio nella conca absidale di San Prospero di Reggio, iniziato nel 1586, e Annibale Carracci. Il declino del michelangiolesco in chiave padana, tanto nella versione del novellarese Orsi, quanto in quella condotta dal ferrarese Bastianino, esaurisce la vena di potente gigantismo e di eccentrica sintassi alla quale non era stato estraneo nemmeno Pellegrino Tibaldi. La ripresa sarà in favore da un lato della riforma equilibrata e serena di stampo reniano (la grande decorazione negli stati estensi si appellerà anche alla poetica zuccaresca), dall'altro del rinnovamento eclettico della pittura bolognese che predominerà su altre influenze, quella veneta soprattutto, presente con saltuari capolavori anche nella provincia reggiana. Un breve sguardo alle situazioni limitrofe può chiarire la posizione di Correggio alla fine del secolo e prima della influenza estense, in seguito alla deposizione del principe Siro. Reggio Emilia, come è noto, si appoggia al Procaccini e poi al cremonese Bernardino Campi, dal 1587 stabilito a Guastalla al servizio di Ferrante Gonzaga, che influenzerà l'autoctono Orazio Perrucci nella sua tarda attività. Di Annibale sono ben note le opere reggiane che inaugureranno ancora alla fine del XVI secolo la strada delle frequenti committenze ai maggiori artisti di matrice felsinea: Spada, Tiarini e soprattutto Guercino, pittori che con il ferrarese Bononi detengono il primato di veri caposcuola, modello per i locali. Presenze venete singolari sono quelle di Paolo Caliari, di Jacopo Palma e di Domenico Tintoretto: di quest'ultimo è bene ricordare che anche la vicinissima San Martino in Rio conserva nella parrocchiale un dipinto raffigurante la Tiinità, angeli e i santi Francesco e Giovanni Battista, purtroppo mutilo della parte inferiore. Una tela di Domenico era presente anche a Ferrara, probabilmente nella chiesa di San Domenico dagli inizi del Seicento, raffigurante la grande sinfonia del Rosario (oggi alla Pinacoteca Nazionale). A Modena erano tramontati Domenico Carnevali ed Ercole Setti, mentre l'ultimo rappresentante del manierismo locale, Ercole dell'Abate, nipote del più famoso Nicolò, faceva infiltrare nelle pieghe della tradizione locale il rimando alla cultura nordica mediata da Bartolomeo Passerotti, ben noto nelle raccolte di corte e autore di imprese pubbliche quali la Madonna del Rosario per la chiesa di San Domenico. Da Pietro Paolo dell'Abate, figlio di Ercole, carico di arcaismi, e da Giulio Secchiari, ancora legato nel primo decennio del Seicento ad orditi compositivi neomanieristici ferraresi e tibaldeschi, il panorama si schiarisce e si normalizza con Bartolomeo Schedoni, una delle maggiori figure della pittura meteorologica padana di primo Seicento, e con Camillo Gavasseti, che più ancora di Bernardino Cervi media il nuovo linguaggio degli Incamminati in chiave estense. P lo stesso Cervi che dal soggiorno bolognese ricava la conclusione che anche a Modena deve essere fondata un'Accademia, la stessa che verrà ereditata dal Lana e dallo Stringa. La situazione ferrarese poggia dapprima sullo sperimentalismo controriformato del Bastarolo, di Gaspare Venturini e di Domenico Monio, quest'ultimo in bilico fra romanismo e tintorettismo; si cala poi nel naturalismo passionale del giovane Scarsellino, via via influenzato dai Carracci, in particolare da Ludovico che si porrà quale termine di comparazione anche per il burrascoso Bononi, ultimo artista cortese della città in declino. Per Guastalla è Bernardino Campi a tenere il primato, ma le varie componenti figurative locali sono ben ardue da stabilire nell'attuale assenza di documenti. Certo l'influenza imperante di Carlo Borromeo sul cognato Cesare Gonzaga facilitò un rinnovamento in termini di ortodossia delle forme in ossequio alla fede, ancora oggi leggibile nei monumenti di culto. Gli interessi nella prima decade del Seicento si appuntarono comunque verso gli artisti e le scuole più rinomate del tempo, con la presenza del modenese Matteo Ingoni, del bolognese Antonio Gatti, del mantovano Francesco Bugani fino al più tardo Bolognini e alla comparsa del celebre dipinto del Guercino raffigurante La vocazione del beato Luigi Gonzaga (1650), emigrato in Francia e oggi al Metropolitan Museum di New York. Novellara vede dal 1582, con presenze saltuarie, il ruolo attivo di Pietro Maria Bagnadore, pittore e collezionista al servizio dei signori della città, affiancato dall'ancora poco noto Mario Lodi. Una situazione figurativa, quella novellarese, per alcuni versi assai simile a quella correggese, nelle quali il tardo Cinquecento viene a presentare caratteri di forzata sommarietà e di imitazione di fonti più illustri. Certo è che Correggio ricuce fin dal primo Seicento un discorso tutto intessuto di provincialismo, la cui produzione è tanto cospicua quanto incerta nei confini stilistici, spesso sottilmente abbarbicati ad esempi illustri di impostazione. Si fa da allora predominante la cominittenza ecclesiastica, la stessa che misuriamo oggi sul patrimonio superstite delle chiese, in forza del declino e della precoce scomparsa dei signori del luogo, fino ad allora punto quasi esclusivo di confluenza di ogni interesse artistico. Così mentre la non lontana Gualtieri esprime nel piano urbanistico-architettonico voluto dai Bentivoglio uno degli episodi più singolari e grandiosi della cultura signorile padana del tempo, esaltato nel terzo decennio del Seicento dall'impresa del Battistelli e del Badalocchio per il palazzo di Ippolito, Correggio percorre un itinerario più modesto, cui la prorompente imprenditorialità del principe Siro non riesce a donare affiati originali. La temperatura artistica, ancora entro l'ultimo ventennio del XVI secolo, è misurabile dalle prove correggesi di Francesco Madonnina, personalità venuta delineandosi autonomamente da una primitiva identificazione con il Bastarolo. Nelle opere ormai indiscutibilmente a lui attribuite (il monumentale frontale del Rosario con i Misteri, eseguito per la chiesa di San Domenico, segna il punto di massima evoluzione della sua attività) è facile cogliere i caratteri peculiari della pittura mediopadana dell'epoca, nella quale Antonio Allegri si rivela componente primaria e preponderante rispetto ad altre. Una esperienza, quella della continua rinascita del Correggio, che accomuna intere generazioni di artisti, espressa nella pratica costante della copia (sia essa replica per il culto, copia d'accademia o quadro sostitutivo degli originali), e ancora più nella ricerca ricorrente di innesto su nuove correnti figurative della intramontabile radice delle "belle forme" parmensi. Riportata convincentemente l'esecuzione della Madonna del el Rosario del Madonnina alla fine del penultimo decennio de secolo (sulla scorta anche di ritrovamenti archivistici), al seguito quindi delle due Crocifissioni di Magreta e di Correggio, si vedrà come l'autore, da un clima di ancor acceso manierismo correlato a scambi fra Bologna, Modena e Ferrara, si riporti entro un alveo di regolarità sintattiche e di ampie campiture cromatiche chiaroscurate, superando gli ascendenti passerottiani e bastaroleschi per portarsi in direzione del più ortodosso Calvaert o di Lavinia Fontana. Nel catalogo delle opere di questo artista, con una datazione assai prossima alla pala del Rosario, sarà bene inserire il San Domenico dinanzi alla Croce (proveniente da San Giuseppe Patriarca, ma verosimilmente dipinto per i Domenicani), rigido nella impostazione dei volumi e dei gesti, ma vibrante di chiaroscuri e di timbri cromatici. Di tangenze bolognesi tardocinquecentesche, alla Sammachini, affini in parte agli aspetti del reggiano Codeluppi, resta traccia del resto anche nella vicina San Martino in Rio, e precisamente nell'Annunciazione della parrocchiale. Nulla finora è stato rinvenuto di quel Lodovico Bellesia che a detta degli storiografi dovette dipingere a cavallo del secolo opere di "buon gusto"; scarse anche le testimonianze del correggese Paolo Gianotti, nato verso il 1560 e morto nel 1622. Dall'opera firmata e datata 1614, dipinta per l'altare del seminario di Reggio e passata poi in San Quirino raffigurante un San Giovanni Battista, possiamo ricavare un sapore di stilemi arcaici ' quasi i Carracci e gli Incamminati fossero a quella data sconosciuti a tutto favore della più corriva "arte senza tempo" della capitale, dove peraltro il nostro passò, a detta della tradizione storiografica locale, gran parte della vita. Evidenti influssi veneti, e precisamente del prolifico Palma il Giovane, dimostra l'altra opera del Giannotti, Il Redentore, santo Stefano e san Quirino, recentemente restaurata, testimoniando essa la permanenza di attrazioni verso la pittura ve~ neta collaudatissima, con un occhio di favore verso l'opera di Alessandro Tiarini, artista impegnato a soddisfare committenze religiose nei piccoli stati principeschi della provincia emiliana. Di una ricaduta in direzione della riforma carraccesca sono invece prova le due opere del novellarese Jacopo Borbone, già affiliato dell'Orsi e del Bagnadore, per il quale il Davolio afferma che "sotto la direzione di Lelio lavorò in Bagnolo, in Novellara, nelle Rocche, nei Casini e sulle facciate delle case onde rendere ogni casa bella ed elegante per la venuta di Donna Vittoria e di molti principi e signori che intervennero alle sue nozze (1568) e che molto tempo dopo fu a Mantova, ove morì nel 1615". I due dipinti in San Quirino, la Trinità con i santi Carlo, Francesco e Gerolamo e il Crocifisso con san Carlo e sant'Andrea, databili per la presenza del Borromeo dopo il 1611, anno della canonizzazione, denotano una maturazione dai cardini formali dell'ultimo manierismo alla luce di esperienze emiliane e venete, queste ultime ancora però mediate con evidenza da Jacopo Palma, ricorrentemente presente nei ducati estensi. Si tratta dello stesso tipo di impianto arcaizzante sfruttato dall'artista per la pala con Madonna e santi datata 1614 e firmata, realizzata per la chiesa dei Domenicani di Mantova e oggi conservata nel Palazzo Ducale della città. Delle capacità eclettiche di questo artista è prova del resto anche l'Ultima cena per Santo Stefano di Novellara, come altre opere che sono andate di recente ad accrescere il catalogo grazie a riconoscimenti sviluppati a seguito di capillari campagne di restauro sul patrimonio pittorico di culto delle pievi reggiane e modenesi. Dal 1607 era presente a Correggio la grande pala dipinta dal Galanino per la confraternita di San Sebastiano. Dovette essere questa l'opera che maggiormente informò il centro padano delle novità della riforma carraccesca già approdata a Reggio e a Modena, anche se la committenza all'Aloisi, pittore non di primo piano nel celebre atelier bolognese, riduce la portata dell'avvenimento ad un fatto di provincia. Della menzione del Pungileoni circa "un quadro grande di Lodovico Carracci che rappresentava una Beata Vergine col Bambino in grembo, S. Giuseppe a tergo con due angioli di sopra, ai lati quattro pastori, un cane e un capretto e abbasso due mezze figure dipinte per la confraternita di S. Giuseppe, disperso o distrutto all'epoca delle soppressioni" poco se ne trae, se non la ulteriore verifica di uno stretto contatto con Bologna e la maggiore scuola del momento che la storiografia locale ottocentesca intende sottolineare, in sostituzione della gloria correggesca ormai tramontata. Così i nomi di Gian Luigi Valesio, correggese di nascita, ma attivo a Bologna e a Roma, e di Mario Chierici, autore di vedute e di capricci floreali nonché di pitture per la parrocchiale di Mandriolo - ma dopo la ristrutturazione settecentesca e il radicale rifacimento, l'arredo agli altari di questa chiesa è mutato - suonano oggi muti di referenza in patria. Piuttosto è da valutare, anche se in un'ottica di aulico provincialismo, il gusto più largamente guercinesco di alcune opere già esistenti in San Francesco, fra le quali spicca la paletta con i Santi Pietro e Paolo a mezza figura sovrastanti una scena con il Battesimo di Costantino: pur nella impostazione rigida della composizione, aleggia lo spirito rusticano della bottega dei seguaci del grande centese, i Gennari e Benedetto Zalone. Un restauro dell'opera potrà più propriamente contribuire a decodificare l'autore, suggerendo fin da ora anche un accostamento al fare di Pietro Desani. Lo stesso Giuseppe Capretti, attestato maestro del Donnini, tradisce nell'opera a lui attribuita - la debole Crocifissione già in San Francesco e piuttosto inoltrata nel secolo - un forte ascendente dal modello guercinesco della basilica della Ghiara di Reggio Emilia. Improbabile a questo punto poter parlare di uno sviluppo della pittura a Correggio per elaborazioni autonome; più legittimo indicare una linea di accrescimenti successivi di opere siglate da un conservatorismo eclettico sui modelli bolognesi. Permane infatti nel secolo da un lato la tradizione della replica dal Correggio, lo stesso Capretti ne fu rinomato fautore, dall'altro l'afflusso regolato di grandi opere dall'esterno. Fra queste, della ininterrotta relazione di buon vicinato con Mantova testimonia il Gesù circondato da angeli appare a san Martino di Domenico Fetti, dipinto per Ubertino Zuccardi, diplomatico dei signori di Correggio in quella città, opera giunta a Correggio con ogni probabilità nel secondo decennio del Seicento. Il Fetti trova qui ispirazione nei prototipi di Ludovico Carracci conglobando nella composizione anche i modelli correggeschi di cui era ricca tutta la sua produzione e quella del suo atelier; in particolare si vedano le figure degli angeli, quello al centro e soprattutto quello in alto a destra, che ricompare in uno degli Angeli Contriti, datati fra il 1614 e il 1615, già nella chiesa degli Innocenti di Mantova e oggi alla Galleria Estense di Modena. Della fortuna del dipinto attesta la copia eseguita dal Capretti per la chiesa delle Cappuccine. L'occhio verso Mantova e gli esempi di Sante Peranda, veniva esercitato del resto anche dalla ritrattistica, non di alto pregio ed originalità ma decorosa e compunta quale doveva essere apprestata per un costume di corte e di società votato all'ufficialità e alla severità. Se le presenze limitrofe dei modenesi Stringa e Caula per la parrocchiale di Santa Maria Assunta di Fabbrico, allo scadere del secolo, ribadiscono la persistenza della supremazia delle capitali estensi della cultura, il San Bernardino che Tisana lo storpio, commissionato dalla famiglia Augustani per la loro cappella in San Francesco, pone seri interrogativi sull'autentica paternità dell'opera, addebitata da tutte le fonti a Mattia Preti. Come è noto l'artista soggiornò a Modena esattamente alla metà del Seicento, impegnato ad affrescare la parte absidale della chiesa di San Biagio e la cappella delle reliquie in duomo. La tela correggese non sembra collimare con lo stile del calabrese a quelle date, modulato sui grandi artisti coevi, dal Guercino al Lanfranco: non possediamo nulla del resto di dipinto dall'artista per il duca Francesco I, il quale però, a detta di una lettera dello stesso Preti al Ruffo del 1661, dovette pagargli opere e viaggio. Sarà bene quindi lasciare ancora in sospeso il giudizio attributivo sul San Bernardino, piuttosto duro nel tratto anche se di interessante sintassi compositiva, riferendo però che una pala di Mattia Preti dovette esistere a Correggio, senza dimenticare peraltro che il luogo, alla stregua di Modena e di Ferrara, era terra fervida di copisti e di riproduttori. Si veda a tale proposito La Visione di Soriano, nella chiesa di San Giuseppe Patriarca: essa dipende, al di là della distribuzione iconografica tradizionale del soggetto, dal dipinto che Francesco Stringa dipinse per la chiesa del Rosario di Finale Emilia. Assume invece una piena e originale fisionomia nel primo Settecento, sempre nell'ambito della pittura a destinazione sacra, Gerolamo Donnini, correggese di nascita ma educato sostanzialmente alla scuola forlivese di Carlo Cignani. L'attività del Donnini per Reggio Emilia e Correggio denota un quadro complessivo di estrema omogeneità stilistica, indissolubilmente legata alla tradizione della grande pala d'altare bolognese di sapore idealizzante. Il classicismo di impronta reniana, desunto dal Cignani e dal Franceschini, si volgarizza in stesure temperate e icastiche rese da "gamme calde, con la funzione di suggerire un'affettuosa intimità", come nella Assunta con i santi Quirino, Michele e Romano per la collegiata del 1735. Ma già la Visitazione, più tarda, tradisce l'apporto di Carlo Maratti, conosciuto a Roma, che innesta sull'artista la corrente di derivazione cortonesca. Piuttosto folto il gruppo delle opere giovanili per le chiese di Correggio - San Quirino, San Sebastiano e frazione San Martino - tutte databili poco oltre il primo ventennio del Settecento, mentre la pala di Fabbrico, raffigurante il Bambino con san Giuseppe e san Francesco di Paola, terminata sicuramente nel 1735, tradisce le esperienze del Dal Sole e di Flaminio Torri. L'aura di atteggiato classicismo del celebrato Donnini predomina ancora nelle opere correggesi dell'allievo Benedetto del Buono, lughese di nascita, fortemente attaccato al maestro, ma certamente meno dotato espressivamente. I dipinti per la collegiata di San Quirino, commissionati alla metà del Settecento, non apportano varianti stilistiche con il loro diligente e ameno colorito proprio della pittura sacra del tempo, meritatamente dignitosa negli affetti e nei gesti. L'ambiente locale sembra puntare verso posizioni garbate piuttosto che sofisticate o drammatiche, nell'alveo della produzione classicista che investe tutta la regione. Del correggese padre Giuseppe Alemanni, anch'esso seguace del cavalier Cignani, ma allievo all'origine del modesto Capretti, poco o nulla si conosce. Dalle opere certe di Rimini e di Ferrara appare assai meno elegante nel colorito di quanto attestato dai generosi storiografi locali: piuttosto gli fu consueto un certo equilibrio del disegno e una buona padronanza del gesto, senza con ciò divergere dal tracciato di un mero classicismo vigente. Potrebbe essergli accostato, con qualche probabilità, il San Bonaventura in preghiera, già in San Francesco d'Assisi, per assonanza con il Beato Andrea Conti dipinto per la chiesa francescana di Ferrara. Nessun influsso sembra produrre la comparsa di capolavori di Giuseppe Maria Crespi a Guastalla e a Finale; ed il ricorso, dopo la metà del secolo, a pittori quali Giuseppe Varotti (sua la Crocifissione della parrocchiale di Mandriolo del 1758) ed Antonio Consetti (pale per la parrocchiale di Fabbrico) non fa che ribadire la persistenza della tradizione anche nei piccoli centri vicini. Il Martirio di santa Lucia del modesto pittore locale Paolo Tirelli, già in San Francesco, denota il ristagno su posizioni di stanca drammaturgia tardobarocca, magniloquente ma sfuocata nel tratto. Restando nell'ambito della pittura a destinazione sacra e devozionale del Settecento inoltrato, non si può non registrare anche per essa una temperatura modesta, appena rischiarata della presenza del viadanese Francesco Morini, aggraziato compositore di formule padane e venete infuse dalla vicina Reggio, ove erano stati operosi Pietro Rotari e Giambettino Cignaroli. Una vena di burbera, sottile ironia sembra dipanarsi invece dai quadretti un tempo nella Madonna della Rosa, di un sapore arcaizzante ma riconducibili al pennello di primo Settecento dello straordinario fra Stefano da Carpi, allievo di Giuseppe Maria Mazza e di Giuseppe Maria Crespi. Giuseppe Barnaba Solieri, al secolo fra Stefano da Carpi, cappuccino, carattere assai ricettivo, aveva dimostrato di possedere raffinate capacità tecniche nel riproporre temi e formule assimilate durante i frequenti soggiorni a Bologna, a Sassuolo, a Modena, a Mantova e a Reggio. Prima di passare a Parma, intorno al 1761, la sua attività aveva già toccato quasi tutti i centri della pianura lasciando, tanto nei lavori di pittura quanto in quelli in cera e terracotta, una testimonianza di immediatezza e di sincera devozione, dove la apparente espressività e ricercatezza di talune grandi composizioni sono da ricondurre al suo spirito ben radicato di creatore di valori umili della vita quotidiana. Insomma era la sua una costante ricerca di umanizzazione del sacro in chiave popolare, esente da intellettualismi come da drammaturgie d'effetto, guidata da una precisa volontà di rivolgere in chiave esuberante ed ironica l'aulicità dei maestri veneti e mantovani, come la profonda verità di un Crespi. Le tre operette in questione, caratterizzate da grosse volumetrie, l'Educazione della Vergine, la Fuga in Egitto, la Madonna delle Rose (forse parte di una serie più numerosa di quadretti dedicati alla Vergine), denotano uno sfondo crespiano accresciuto dalla fragranza dei personaggi e degli attributi descritti puntigliosamente con virtuosismi lineari e cromatici, per spezzature di campiture, come è tipica del suo fare maturo. Un capitolo a parte avrebbero potuto costituire le vite di due illustri pittori di architettura e di scenografia, nativi di Correggio: Giorgio Magnanini e Marco Bianchi. Allievo il primo del Capretti, punto di riferimento obbligato per la disciplina pittorica di qualunque giovane si volesse dedicare alle arti, prestissimo si sarebbe recato a Bologna, sfoderando poi tutta la sua sapienza di pittore illusionista di impronta bibienesca a Modena, al servizio ducale; attivo per il Collegio dei Nobili come per numerose chiese della città, fu collaboratore di Vellani e di Consetti. "Nel bellissimo cortile del Palazzo di Sassuolo seppe maestrevolmente compiere e rinnovare alcune pitture del Colonna, penetrando così bene nel loro spirito e colorito, che agli intendenti sembrano opere di una sola mano" (Q. Bigi). Della abilità di questo maestro, esperto nel riprodurre fogliami, rabeschi, fiori ed uccelli, doveva testimoniare in Correggio la soffitta dell'oratorio di San Sebastiano, oggi non più esistente, come la volta e i laterali della cappella di San Bonaventura nella chiesa di San Francesco. Di una sapiente quanto capziosa maniera orientale dovevano poi parlare le decorazioni del teatro barocco, per il quale fu attivo anche il più noto correggese Francesco Cipriano Forti, architetto, quadraturista e scenografo, nonché talentoso di musica, omonimo di Francesco, quest'ultimo progettista e restauratore di numerosi immobili della città alla metà dell'Ottocento. Di Marco Bianchi, pittore di architettura e di ornato, è nota l'attività modenese e per l'immediato territorio, venendo a costituire con gli artisti precedenti un piccolo gruppo attratto nell'orbita accademica della capitale, al seguito delle committenze ducali. Pittore prediletto della principessa Maria Teresa Cybo, fu tra i fondatori della rinata Accademia di pittura nel Palazzo Comunale di Modena. Fu anche scenografo e direttore di teatro, cimentandosi anche, insieme a Bazzani, nella decorazione della perduta villa romitorio di Mugnano. L'Ottocento è ricco di personalità emergenti, tutte ampiamente conosciute nel panorama della cultura figurativa italiana e che nella gloriosa Accademia di Modena trovano il punto di convergenza. E Adeodato Malatesta a risvegliare l'attenzione "in loco" con l'esecuzione del San Mauro che risana un giovane cieco, eseguito dopo il 1830 per la confraternita di San Sebastiano, un dipinto esposto per qualche tempo in San Marco che destò l'ammirazione dei visitatori. "Circola nel quadro l'armonia succosa e la vigoria animata della tavolozza veneta". L'osservazione di Ferdinando Asioli, tratta dalla monografia sull'artista, attesta di quell'eclettismo che, irrobustito anche dalla permanenza fiorentina, va inteso quale manifestazione di forte impegno e curiosità sugli antichi maestri riproposti con forza in forme evolutive preservate sempre dalla mera ripetizione. E se i temi affrontati paiono a volte liberarsi a fatica dall'impaccio di incentivi intellettuali come il quadro correggese, la regola compositiva è pur sempre arricchita da un virtuosismo cromatico e grafico che ancor più nella ritrattistica si fa naturale, testimoniando di quella ricerca incessante del vero che il Malatesta perseguì anche nell'insegnamento all'Accademia formando i giovani Asioli, Simonazzi, Goldoni, Zattera e il più illustre Giovanni Muzzioli. Il San Mauro è opera romantica, nata dalla esperienza centroitaliana e ancora sotto il fascino dei puristi e dei veneziani: il tono è nobilissimo, i protagonisti vivono di un accadimento eletto mentalmente inattingibile dalla corruzione, vincolati ad una certa rigidezza accademica eppure fieramente partecipi della verità e del sentimento. L'attenzione è come sempre appuntata sui soggetti, nei quali l'emotività del fatto, la teatralità dei gesti è riscattata da una verosimiglianza ambientale e psicologica che ancor di più sì manifesta nei ritratti, di cui il pittore fu prodigo e precoce realizzatore. Potrebbe avere costituito una prova interessante (e curiosa) per Correggio un quadro mai eseguito dall'artista commissionato fin dal 1831, quando cominciava ad estendersi in Italia il gusto per il quadro storico: doveva essere questo Carlo V che visita a Correggio lo studio dell'Allegri, rinunciato definitivamente nel 1840, poiché troppo macchinoso e scarso di documenti certi dai quali trarre una corretta ambientazione sul "vero storico", dal quale il rigoroso maestro non avrebbe mai derogato. Il favore espresso verso la rappresentazione dei grandi attraverso la pittura storico-encomiastica è un dato parallelo alla fortuna della stampa d'arte, tratta dai capolavori museali acquisiti; conoscenza selezionata dei capolavori e divulgazione degli archetipi della cultura figurativa a favore di una idea del vivere e di una gloria passata che dovevano fungere da modello civile per la comunità dei cittadini, producono nel corso dell'Ottocento opere monumentali atte a costruire delle gerarchie artistiche: atlanti o serie che siano. P, il caso della produzione del celebre incisore Rosaspina per Bologna, presso il quale soggiornò l'incisore correggese Giuseppe Asioli, divenuto poi responsabile dell'Accademia modenese nel 1820 e artista celebrato in patria; o ancora di Samuele Jesi, attivo a Firenze e a Milano. Interprete della riscoperta, sempre ricorrente e fervida, del Correggio è il Toschi, autore di un corpus incisorio di grande interesse dedicato ai capolavori allegriani di grande dimensione; la camera di San Paolo, la cupola di San Giovanni Evangelista, la cupola del duomo. Tra i correggesi autentici, gravitanti sul polo modenese, occorre menzionare Giovanni Giaroli, fautore di una pittura accademica con propensione al ritratto, e poi ancora Luigi Asioli, nipote dell'incisore Rosaspina per parte di madre, figlio d'arte e come gli artisti dell'epoca educato all'Accademia. La produzione dell'Asioli, pittore romantico rinomato per le tematiche storiche, ma ugualmente abile nella ritrattistica (ne fa fede il bellissimo ritratto di Giuseppe Asioli presso il Museo di Correggio), è assai vasta. Ripetutamente vincitore del famoso premio curlandese all'Accademia di Bologna e ammirato copista del Guercino e del Domenichino, egli soggiorna stabilmente nella nativa Correggio dal 1840. La Cacciata dei tedeschi da Genova per il moto del Balilla (oggi al Museo Civico di Pistoia), portata a termine nel 1842 dopo la morte di Emino Busi che lo aveva lasciato incompiuto, risente dei modelli di derivazione francese del soggetto, Delacroix per l'esattezza, mentre il San Gerolamo penitente, realizzato per la confraternita di San Sebastiano, riassume tutta la sapienza dell'artista nel padroneggiare repertori, tipologie e verosimiglianze dalla tradizione della pittura italiana ed europea. Sembra corretto attribuire al maestro correggese anche la Visitazione della collegiata dei Santi Michele e Quirino, essenziale e nobilissima nella riproposta iconografica di sapore "incamminato" delle due dame. Sta dietro l'esecuzione delle sue opere una incessante ricerca di perfezione figurativa, esperita in quegli anni nella frequentazione della Galleria Estense e delle chiese veneziane, come attesta la sua copiosissima produzione grafica, base per composizioni di carattere religioso anche a scala ambientale come l'Apoteosi di san Quirino della cattedrale, eseguita nel 1843, impresa concettualmente più forte e temprata delle decorazioni murali a tempera dell'interno, eseguite dai modenesi Camillo Crespolani e Ferdinando Manzini. Chiude a Correggio il filone accademico-romantico il Battesimo di Cristo, dipinto nella cappella del Fonte battesimale nel 1897 da Fermo Forti, pittore carpigiano, opera assai riuscita per l'ambientazione paesaggistica scenografica e profonda sui modelli del Muzzioli. Alla scadenza del secolo il correggese Emilio Meulli ripercorre ancora il filone dell'eclettismo accademizzante con il proseguimento delle tempere nella cattedrale e gli stucchi del nuovo teatro Comunale, inaugurato nel 1898, con nuove decorazioni di mano dei pittori Giulio Ferrari e Giuseppe Ponga. Due occasioni di grande portata civile fra Otto e Novecento apportano alla città opere di grande prestigio, entrambe inserite nel tessuto urbanistico. Nel 1880 viene scoperto il momumento al Correggio, eseguito dal ticinese Vincenzo Vela, allievo dell'Accademia di Brera, influenzato nelle prime opere dal purismo del Bartolini, poi via via improntato al verismo eroico prevalente nella scultura dell'epoca; la resa tormentata che spesso contraddistingue le realizzazioni della maturità è aliena dalla prova correggese, legata ai dettami del vecchio stile encomiastico retorico che era invece contestato dalla grande scultura, indirizzata verso un simbolismo espressivo di ascendenza francese. Del 1922 è invece il Monumento ai Caduti di Leonardo Bistolfi. L'artista piemontese aveva già abbandonato da tempo il filone liberty-floreale per una ispirazione eroica, neomichelangiolesca, fisicizzata sulla amplificazione antologica della grande scultura cinquecentesca classica. Limitata ormai la produzione privata cimiteriale della prima fase che aveva alimentato il circuito decadente fitomorfo delle sue forme, il Bistolfi si esprime qui in bilico fra energia emergente e motivo iconico, rifuggendo dal tutto tondo per ottenere, attraverso la riproposta parziale dello spaccato donatelliano, l'alternanza fra il basso e l'altorilievo. Il risultato è quello di un contrasto altamente drammatico fra fondo e figura femminile, senza retorica di sorta. E proprio sul versante della scultura Correggio annovera nel Novecento la sua artista più importante: Carmela Adani, educata all'Accademia di Firenze sotto l'insegnamento del Graziosi e attiva nel suo laboratorio. La lezione dal classicismo mediterraneo, unita alla tensione evocativa degli esempi cristiani di Giovanni Dupré assaporati con convinzione, irrobustirono lo stile della Adani, dedita frequentemente alla risoluzione di committenze a sfondo religioso che svolse con disinvolto sapore narrativo. Il progetto delle porte di San Pietro, del 1947, divenne il concentrato delle sue capacità espressive, nella memoria sempre presente degli esempi rinascimentali: una sorta di dedicazione alla scultura di tradizione classica dalla quale gran parte della cultura artistica italiana continuò nel Novecento a ricavare i suoi valori più alti. Le altre arti Sappiamo dalla tradizione storiografa che il cofanetto eburneo conservato oggi nella collegiata di San Quirino proviene dai Signori di Correggio: esso venne donato alla chiesa dalla contessa Bianca Rangoni, moglie del conte Antonio da Correggio nel 1467, per servire all'uso di reliquiario delle ossa di san Quirino almeno dal 1503 al 1507, quando venne realizzato il reliquiario d'argento tuttora esistente. Si tratta di un manufatto ricercato ed elegante uscito dalla bottega degli Embriachi, con ogni probabilità dono di nozze: un oggetto abbastanza frequente presso le famiglie nobiliari dell'epoca, passato poi spesso a figurare in qualche raccolta principesca. Doni di nobildonne dovettero essere i tessuti con i quali vennero confezionati numerosi parati della collegiata, fra i quali spiccano un corredo di due dalmatiche e pianeta in broccato a fiorami, e due pianete, anch'esse in broccato, di raffinatissima manifattura francese del XVIII secolo. L'uso di adattare abiti civili a vesti religiose era frequentissimo e nei casi correggesi segnalati la sontuosità delle stoffe e la ricchezza dei soggetti floreali e fantastici ne avvalora la provenienza aristocratica. E per restare nell'ambito delle arti a destinazione liturgica, le più documentate perché spesso le uniche sopravvissute, Correggio possiede ancora oggi oggetti straordinari per qualità come i reliquiari della collegiata: da quello del braccio di San Quirino, datato 1507, ancora goticizzante, ai due a torretta sbalzati e cesellati nella bottega del celebre Bartolomeo Spani di Reggio Emilia. Ma il caso più interessante è sicuramente rappresentato dalla croce astile di Giovan Maria Piamontesi, datata 1612, realizzata in argento a sbalzo, cesello e bulino con parti a rilievo e a tutto tondo fuse. Al di là dei problemi iconografici e degli elementi arcaizzanti ancora impostati sul manierismo cinquecentesco che l'opera presenta, essa testimonia dell'attività di un correggese, il Piamontesi appunto, pittore scenografo e architetto, attivo nella sua maturità a Roma, in un campo tecnicamente specialistico come la fusione e il trattamento dei metalli e dei conii. Dello stesso artista sarebbero stati anche sei candelieri d'argento (probabilmente sul modello della croce), oggi scomparsi dalla collegiata. Il patrimonio barocco ancora superstite delle chiese correggesi ci conferma una intensa attività di botteghe artigianali dedite allo stucco, alla scagliola e all'intaglio. La presenza di paliotti a fiorami o a prospettiva stabilisce una linea ininterrotta con Carpi, centro riconosciuto capostipite della produzione delle scagliole. Ricordiamo che lo stucco, rielaborato duttilmente nelle forme più varie ad imitazione dei materiali più preziosi, fu trattato dal correggese Giuseppe Casalgrandi, autore di ancone monumentali di pregevolissima fattura, plasmate sui modelli barocchi e barocchetti delle vicine capitali. P Quirino Bigi (ancora una volta) a ricordare le tappe dell'artista, molte delle quali ancora in loco: "Di sua mano sono nella Chiesa dei Conventuali i bellissimi altari di S. Francesco e della B. V. della Concezione; nonché gli altari di S. Antonio e di S. Giuseppe da Copertino; questi due sono poi di gusto piuttosto bizzarro. Nell'ultimo eranvi due statue, la Fede e la Speranza di buona maniera, che furono levate; e negli altri trovansi ancora altre tre bellissime statue di stucco che rappresentano S. Antonio da Padova, S. Francesco d'Assisi e la B. Vergine della Concezione della pregevole mano di Angelo Piò di Bologna. Nella Chiesa di S. Domenico esiste l'altare di S. Vincenzo nel quale veggonsi figure ben concepite ed atteggiate. La fama di lui si estese nelle città e luoghi limitrofi. A Sassuolo eseguì i lavori a stucco nella chiesa di S. Giorgio. A Spilamberto l'altare maggiore e il presbiterio. Indi passò a Modena nel Palazzo ducale ove fece gli ornamenti della magnifica cappella e gli stemmi della Biblioteca. Poscia lavorò a Ganaceto un bellissimo palio di altare ornato di fregi e di figure eleganti. Alla Pieve della Modolena l'altare del SS. di quella chiesa, e poi in Reggio tutti gli ornamenti della chiesa del Crocefisso".



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