Alberto Ghidini
Stato, Città e Comunità fra XVI e XVIII secolo
Correggio, identità e storia di una città

Il quadro generale

Sui problemi dell'assetto politico dell'Italia centro - settentrionale fra Quattrocento e Cinquecento, gli studi e le ricerche portate avanti in anni recenti hanno aperto il campo dell'indagine anche ad altri temi privilegiando aspetti prima poco noti o trattati, come ad esempio, per citarne qualcuno, l'interesse per le corti, i ceti dirigenti, le grandi e le piccole comunità urbane e rurali.
Alla base dei nuovi orientamenti poggia la constatazione che lo stato del Rinascimento, lungi dal presentarsi con i caratteri dello stato "forte", e cioè come "nucleo di sovranità piena e compiuta" tipico di epoche successive (G. Chittolini), sia invece da considerare su un piano di più limitata volontà e capacità di incidenza per il gioco delle interferenze di ordine esterno e di ordine interno.
il quadro geografico entro cui si era formato ed agiva come soggetto politico lo stato correggesco, si presentava fra Quattrocento e Cinquecento ben distinto in due aree, la "Lombardia di qua dal Po" e la Romagna Pontificia. La prima arrivava fino a Modena ed era compresa in quella più vasta regione lombarda che si estendeva sia sul versante centro orientale della pianura padana sia verso il Piemonte includendo Pavia, Tortona ed Alessandria; la seconda, con Ferrara e Bologna, giungeva fino al Panaro.
Rispetto ad altre regioni che gravitavano intorno a forti poli di aggregazione (Venezia per il Veneto, Firenze per la Toscana, Milano per l'area che solo più tardi si chiamerà Lombardia), l'Emilia era frantumata in un assetto particolaristico privo di strutture politiche unificanti tali da avviare la costruzione di uno stato regionale.
Tre forze erano principalmente emerse nei territori emiliano-romagnoli dagli inizi del XV secolo: lo Stato Pontificio, la Signoria estense (con Ferrara, Modena e Reggio) e il dominio milanese che si estendeva a Parma e Piacenza, anche se zone più limitate erano controllate da Firenze (crinale appenninico) e da Mantova (lungo il Po).
All'interno di tali forze, che promanavano da stati rispetto ai quali i territori emiliano-romagnoli risultavano periferici e perciò di non facile controllo, si erano affermati e prosperavano numerosi e vivaci nuclei e centri signorili minori riconosciuti a famiglie come i da Correggio, i Pio, i Pico, i Gonzaga di Novellara, i Rossi, i Landi, i Pallavicini, i Torelli, i Fogliani, ecc., in un panorama caratterizzato da un ampio gioco di frizioni e appunto dall'influenza di stati forti come quello milanese, veneziano, pontificio e fiorentino.
Proprio da questa situazione di debolezza e instabilità politica ricevono forza e vitalità le forme di organizzazione particolaristica che il Quattrocento aveva ereditato dai secoli precedenti senza che fossero mai veramente assorbite, in Emilia, dentro la fragile struttura degli stati: soprattutto le signorie rurali e i feudi. Anzi, pare quasi che la dimensione locale potesse offrire alla società punti di riferimento o di aggregazione più stabili e garanzie maggiori rispetto a quelle offerte dalle strutture statali. Queste Signorie, medie o piccole, in cui "si forma l'ideologia del piccolo Stato coordinato al grande Stato" (M. Berengo), giocano strategie e margini di autonomia fra le due maggiori forze in lotta tra di loro, lo stato visconteo-sforzesco e quello estense, premute poi, fuori dall'ambito signorile, da Venezia e dagli altri stati.
I Visconti e gli Estensi non possono sottrarsi al riconoscimento del ruolo politico svolto dalle signorie minori, alcune delle quali, le più attive, riescono ad ottenere privilegi e spazi di autonomia fino a rivendicare per sé la condizione di piccoli stati. t il caso dei da Correggio, dei Pio, dei Pico, dei Gonzaga di Novellara che aspirano a creare un autonomo ambito di governo non subordinato ma piuttosto raccordato ai duchi di Milano o di Ferrara, in modo da inserirsi nel sistema degli stati italiani.

L'assetto politico del correggese e i suoi caratteri

Per raggiunge un simile obiettivo i nuclei signorili minori indirizzano i loro sforzi nella ricerca di un titolo di legittimità che, affrancandoli dalle concessioni feudali promananti dai duchi di Ferrara e di Milano, e quindi da una sorta di sottomissione regolata, li ponga alle dipendenze dirette dell'imperatore.
L'investitura imperiale comportava infatti condizioni di maggior prestigio e autonomia che però vengono riconosciute solo ad alcuni piccoli "principati" quale quello dei da Correggio, dei Pico, dei Landi, dei Pallavicini e al marchesato del Finale.
I da Correggio riescono dunque ad ottenere dall'imperatore Federico III, il 25 maggio 1452, il sospirato diploma di investitura, il primo nella storia dello stato correggesco, e cioè quel titolo di legittimità che può offrirgli i requisiti di una maggiore sicurezza e stabilità. Correggio viene elevata al rango di "contea nobile" e ai suoi Signori e ai loro discendenti, è riconosciuto il titolo di conti mentre contemporaneamente si definiscono i confini e si specifica l'elenco delle loro terre e castelli.
L'ambito dei loro domini aveva le dimensioni di una piccola provincia e comprendeva 59 luoghi e castelli (anche se di alcuni avevano perduto A possesso) disseminati nei territori reggiani e parmensi con i tre epicentri: Correggio, Castelnuovo Parmense, Brescello.
La situazione rispecchiata in questa prima investitura subisce un ridimensionamento negli anni fra la pace di Lodi (1454) e il 1470 in cui i da Correggio sono costretti a cedere Castelnuovo e poi ad abbandonare Brescello (insieme con Scurano e Bazzano), importante caposaldo strategico che per la sua posizione gli consentiva il controllo della navigazione sul Po.
L'essere risospinti su Correggio, loro principale capoluogo, li costringe a ridimensionare il disegno della creazione di uno stato-epicentro tra la
valle dell'Enza e quella del Secchia su cui si era attestata la tradizionale politica della casata.
La contea si è ora assottigliata e comprende, oltre Correggio e le sue ville, Campagnola, Fabbrico, Rossena, Rossenella, Gombio e possessi in Medesano e val di Campegine.
Nonostante i da Correggio siano costretti a cedere diversi territori a favore dei maggiori potentati, la contea non perde la sua importanza e, anzi, le necessità imposte dagli avvenimenti la costringono a uno sforzo maggiore nella ricerca di un equilibrio di riconquistare o di una salvaguardia da recuperare nel confronto sia con gli stati regionali sia con gli stati minori.
Accanto al titolo di legittimazione, un altro carattere importante dello stato correggesco riguarda la tutela della sua integrità e del suo assetto interno. Per evitare liti e lotte di successione, i da Correggio confermano più volte alcuni principi, anzitutto che ogni loro stato o possesso sia da considerarsi proprietà comune ed inalienabile e che il governo sia presieduto dal più anziano. In questa direzione vengono stipulati diversi concordati tra fratelli e parenti a riconferma di un principio stabilito fin dal 20 marzo 1420 in base al quale non solo erano vietate le alienazioni ad altre famiglie, ma si stabiliva che la successione avvenisse per linea di primogenitura maschile.
Tuttavia, come si vedrà in seguito, questo delle successioni si rivelerà uno dei punti dolenti della vita dello stato connotando le sue vicende dinastiche come veri e propri feuilleton.
Sul piano dei rapporti e dei patti di aderenza con le signorie più potenti, i da Correggio, pur riconoscendone la superiorità, cercano ogni volta di rivendicare quei margini di indipendenza e di autogoverno che non scalfiscano la fisionomia del loro assetto come stato signorile.
Per affermare e mantenere la loro presenza nelle pieghe di una situazione che tendeva ad escluderli, i da Correggio, attraverso i loro uomini più prestigiosi, affinano quell'arte della sopravvivenza che sapranno esprimere nei momenti migliori in un'accorta e continua politica di accordi, trattative, alleanze, non nel senso di una equi distanza dai grandi potentati, ma in direzione di una sorta di sotto missione regolata nei confronti degli stati maggiori.
Sotto questo aspetto essi adottano la linea del doppio binario: da un lato stabiliscono rapporti di fedeltà e collaborazione con gli Estensi, che sono i più importanti e forti vicini, dall'altro si appoggiano a potentati lontani (a seconda delle contingenze politiche il Ducato di Milano e la Repubblica Veneta) per cercare protezione dalle mire ostili dei vicini e tutelare cosi il sistema della loro precaria indipendenza, Un altro carattere non trascurabile del piccolo stato correggesco è legato all'attività dei Signori che, coinvolti in tutte le leghe dell'Italia padana e in diversi eventi emiliani, li obbliga a indirizzarsi alla carriera delle armi.
Molti di essi li troviamo come mercenari militari al servizio di potentati italiani o anche fuori dei confini della penisola. Ottenere una condotta, indipendentemente dagli eventuali successi militari, significa realizzare un importante obiettivo politico perché grazie ad essa e al denaro della provvigione, possono mantenere soldati a difesa dei loro domini.
Oppure, quando si spostano a guerreggiare lontano, ne approfittano per ampliare la loro possibilità di inserimento nelle vicende politiche italiane. In sostanza le scelte dei da Correggio, come uomini d'arme e condottieri, sono obbligate da motivi di debolezza politica e di bisogno continuo di denaro.
Nell'arco di tempo che va dal XV secolo alla metà del XVI, i da Correggio e, in particolare, Giberto VIII, Manfredo II, Giberto IX, Antonio Il e lo stesso Nicolò Postumo, in cui l'uomo d'arme convive con il raffinato e colto letterato, fino a Giberto X e Ippolito, rispettivamente marito e primogenito di Veronica Gambara, assumono condotte per Venezia, per i Medici, per gli Este, per gli Sforza, per il Papa, per il re di Napoli e altri potentati, militando nelle armate di Carlo V e prendendo parte a tutte le guerre piccole o grandi, vicine o lontane ai loro confini.
Partecipano anche a diverse missioni diplomatiche che rappresentano buone fonti di finanziamento e insieme l'occasione di avvicinare personaggi illustri o potenti.
La politica matrimoniale è un altro degli aspetti non certo secondari per la sopravvivenza del piccolo stato.
Il gioco delle alleanze, la ricerca di un assetto più solido e di maggiori spazi di manovra inducono i da Correggio ad impostare una politica matrimoniale indirizzata ad imparentarsi con importanti casati signorili sia di stati vicini che di regioni lontane.
Tra il XV e il XVI secolo diversi matrimoni mirati imparentano i da Correggio con gli Este, gli Sforza, Bartolomeo Colleoni, i Pio, i Pico, i Gonzaga, i Gambara, i Rangoni, i Sanvitale, i Collalto, i da Correggio si accasano anche fra di loro, come avviene nel 1541 in occasione delle nozze del primogenito della Gambara, Ippolito, con la quattordicenne Chiara (che gli era stata promessa sette anni prima), erede universale del cugino Gianfrancesco.
Lo scopo delle nozze, volute da tutti i condòmini, era naturalmente quello della conservazione dell'unità del feudo correggesco.
La politica matrimoniale sarà invece del tutto trascurata dall'ultimo Signore di Correggio, il principe Siro che, mandando a monte matrimoni politici vantaggiosi predisposti dai suoi collaboratori, sposerà la figlia del fornitore del presidio spagnolo, Anna Pelloni, cambiandole il nome in Pennoni per far credere che discendesse da un'illustre casata.

La Signora di Correggio

Se il periodo delle lotte di predominio in Italia, avviate con la discesa di Carlo VIII re di Francia nel 1494 e poi proseguite con le guerre tra Francesco I e Carlo V, aveva coinvolto l'Emilia in un più vasto sistema internazionale, la piccola contea di Correggio, lungi dal volgere al tramonto, trova un terreno più favorevole al suo rafforzamento e allo sviluppo di un nuovo gioco politico e militare nel raggio di influenza dei grandi stati, Francia, Impero, Papato, stante la cronica inefficienza di quest'ultimi ad esercitare un governo diretto.
Nel quadro peculiare della contea che è praticamente condizionata, se non manovrata dai maggiori contendenti della scena politica, si innesta la presenza della Gambara che sposa Giberto X da Correggio nello stesso anno in cui si spegneva il raffinato Nicolò (1508), figlio di Beatrice d'Este, colui che aveva dato un notevole contributo al primato del teatro ferrarese e aveva portato nella corte correggesca il soffio del Rinascimento.
Nel governo della contea erano associati, insieme con Giberto, i nipoti Gianfrancesco e Manfredo (figli di Borso) mentre Giangaleazzo, figlio di Nicolò, morendo nel 1517, aveva messo in difficoltà la casata derogando agli antichi accordi col chiamare la madre e le sorelle alla successione nel feudo.
Con la morte del marito Giberto, nel 1518, Veronica si trova ad esercitare un ruolo preminente nelle complesse relazioni con gli altri condòmini.
Si realizza in lei uno stretto rapporto fra cultura e politica a motivo del quale ella tende a riaffermare la funzione dell'intellettuale in un piccolo centro di potere anche se è stato osservato che il suo ingegno letterario lo avrebbe spesso utilizzato, più che per effusioni artistiche, in funzione politica, nell'interesse della casa e dei figli. Del resto non c'è da meravigliarsi più di tanto perché questo faceva parte del costume e delle aspirazioni dell'epoca.
Dapprima, anche in relazione alle vicende della sua famiglia d'origine, parteggiò per la Francia. Tra l'8 e il 9 marzo 1511 muore a Correggio, proprio in casa di Veronica, ove era stato trasportato per malattia a seguito di una caduta in acqua, Carlo Il d'Amboise, figlio di Carlo I, gran maestro di Francia, poi maresciallo, poi ammiraglio, che aveva prestato un validissimo aiuto a Luigi XII nelle campagne di guerra e nel governo delle province italiane conquistate. Sempre nel 1511 Gianfrancesco, padre della Gambara, sosta a Correggio dove probabilmente vede la figlia per l'ultima volta prima di partecipare al blocco di Treviso. Se il testamento del padre, morto verso lo scadere di quell'anno, era traboccante di espressioni di fede per il re di Francia, Veronica, a differenza della madre, cercò di adeguarsi alla situazione che evolveva riuscendo a districarsi abilmente nei marchingegni della politica. All'epoca delle guerre tra Francesco I e Carlo V, intuendo la vocazione strategica di Correggio nello scacchiere emiliano, come caposaldo a sud del Po, sa giocarla in maniera abile a favore della Spagna aprendo in tal modo una strada che caratterizzerà la politica dello stato, sia pure con qualche sbandamento episodico, fino alla sua estinzione nel secolo XVII.
La posizione filo ispano-imperiale dei da Correggio, che ottengono da Carlo V nel 1520 una nuova investitura del feudo, per metà indiviso tra i figli della Gambara, Ippolito e Girolamo, e per l'altra metà confermato ai cugini Gianfrancesco e Manfredo, venne corroborata dalle due visite effettuate dall'imperatore nel 1530 e nel 1532 nel capoluogo della contea.
Dietro lo schermo delle celebrazioni e dei festeggiamenti il vero scopo degli incontri si paleserà di natura politica e strategica. Verrà esaminata la posizione della contea e la possibilità di farle assumere un ruolo equi libratore in senso filo-spagnolo fra gli altri stati dell'area padana molti dei quali avevano orientamenti filo-francesi. Senza trascurare la definizione dei progetti di potenziamento delle fortificazioni e di riassetto delle mura.
Secondo il Sansovino, l'Imperatore concesse ai da Correggio una salvaguardia che li metteva al riparo nelle loro terre da qualsiasi guarnigione ma, come si vedrà, era solo una pia illusione.
Durante il governo di Veronica guerre e incursioni sfioreranno la contea. Le cronache ricordano che nel 1526 Fabrizio Maramaldo e i suoi fanti italiani (che si erano uniti ai Lanzichenecchi e alle truppe del Connestabile di Borbone prima del sacco di Roma), probabilmente privi di paghe e di vettovaglie, tentarono di sorprendere Correggio e pur incontrando reazioni energiche e dinieghi ne avrebbero provocato la "rovina" economica.
Una rovina che si sarebbe ulteriormente aggravata, sempre secondo i cronisti, nel 1531 quando il marchese del Vasto si portò a Correggio in veste di amico con le sue truppe spagnole.

Economia e urbanistica

Il poligrafo domenicano Ortensio Lando, nel suo lungo peregrinare, mosso da una sincera curiosità delle idee e delle cose, non poteva mancare di visitare anche Correggio che definisce nel suo Commentarlo delle più mostruose e notabili cose d'Italia (1548) "castello più pomposo che ricco, più ozioso che laborioso".
Anche se questo giudizio può forse peccare di superficialità, al fondo rivela anche un'intuizione non occasionale quando parla di pomposità più che di ricchezza.
L'economia correggese era quasi esclusivamente basata sull'agricoltura: il suo decollo, favorito dai da Correggio, si può far risalire alla seconda metà dei XV secolo grazie ad una forte espansione demografica che si rivela decisiva nell'organizzazione del paesaggio agrario. Vengono promosse e realizzate diverse opere di prosciugamento e bonifica per canalizzazione o per colmata artificiale. Questo processo, assecondato anche attraverso l'affitto diretto di zone vallive e boschive, perché fossero coltivate, si accompagna ad una politica tesa ad incoraggiare la formazione della piccola proprietà e la trasformazione della grande.
In un arco di anni relativamente breve Correggio, che ha particolari necessità di sostenersi autonomamente, realizza un miglioramento della propria base economica che può contare sull'aumentata estensione della zona coltivata a prato e a seminativo. Vaste zone incolte situate ai confini con Carpi, Mantova, Parma, vengono disboscate e bonificate e concesse in affitto o a mezzadria grazie alla contingenza favorevole e agli investimenti dei Signori e delle maggiori famiglie.
Nella riorganizzazione produttiva fondata sul podere, la piantata di alberi e viti in filare diviene un elemento tipico anche del paesaggio correggese. Tra le coltivazioni primeggiava la vite e la produzione dell'uva doveva richiedere cure particolari se lo stesso Ortensio Lando poteva segnalare che i vini di Correggio "sono figliuoli dei vini di Lesbo". A questa segnalazione fa riscontro del resto il giudizio dell'Aretino, cui Veronica Gambara aveva inviato delle botti di vino bianco e rosso: "il conte Claudio Rangone mi fornì del suo da Modena [ ... ]; ma non aveva si chiaro colore e si mordente sapore".
Accanto alla vite, le altre colture erano quelle del prato, del grano, della canapa, del lino, del girasole e dei legumi.
Il latte era piuttosto scarso e il contado si alimentava, secondo R. Finzi, a base di farinacei, ortaggi e carni insaccate di maiale. Cipolla, aglio, peperoni, pane con cruschelle e minestra di farina di grano costituivano l'alimentazione degli agricoltori abbienti.
E assai difficile, in mancanza di fonti documentarie, stabilire per i secoli XV e XVI la consistenza delle entrate della casa correggesca che pro venivano dai beni feudali e dagli allodiali, dall'agricoltura e dalla giurisdizione. I da Correggio non trascurano nulla per aumentare le loro entrate che, per quanto fossero notevoli, finivano comunque per risultare al di sotto dei loro bisogni.
Limitatamente al solo feudo di Correggio si può calcolare che il patrimonio della casa intorno alla prima metà del XVI secolo comprendesse, oltre ai palazzi e ai casini, un complesso di possessioni valutabili intorno alle 7.000 biolche. La popolazione che viveva dentro le mura campava sulle attività legate prevalentemente alla trasformazione dei prodotti agricoli o comunque sussidiarie dell'agricoltura.
Con la riduzione progressiva degli spazi incolti, migliora e si sviluppa di riflesso il commercio interno: i traffici tra contado e città vengono assicurati dai mercati e dagli scambi. Anche con città lontane come Mantova, Ferrara e Venezia avevano luogo traffici e scambi attraverso i tradizionali collegamenti fluviali.
In sostanza, sul piano economico, il tenore di vita di Correggio dipendeva dalle campagne che provvedevano anche ad alimentare per la quasi totalità le attività secondarie e terziarie.
La politica urbanistica e il rinnovamento edilizio si delineano e si sviluppano fra il secolo XV e la metà del successivo e di essi Nicolò da Correggio prima, Veronica Gambara poi, sono i principali artefici, quelli che in maniera preminente contribuiscono alla realizzazione dell'impianto cittadino per trasformarlo in un vero ed armonioso organismo unitario.
La cultura delle "addizioni", e cioè il sapiente ampliamento dell'insediamento preesistente, raggiunge il suo apice appunto fra il secolo XV e la metà del XVI, attraverso il collegamento fra i tre nuclei urbani Castelvecchio, Borgovecchio, Borgonuovo che, sorti in tempi diversi, erano configurati come entità distinte e separate da fosse di difesa.
"Castelvecchio", il nucleo più antico, era il baricentro della città, sede del potere signorile nel cui invaso, rappresentato dall'antica "Piazza Castello", prospettavano la rocca, i palazzi comitali e nobiliari.
In "Borgovecchio", che si era formato fin dai secoli XII-XIII, alloggiavano gli artigiani con le loro botteghe ed i mercanti; in "Borgonuovo" che si era raccolto fin dagli inizi del 1400 intorno ad un fulcro religioso quale il Convento e la Chiesa di S . Francesco, la con giuntura favorevole e l'incremento demografico ne avevano segnato lo sviluppo lungo tutto l'arco del secolo attraverso la costruzione di edifici, l'apertura di botteghe artigiane, traffici e attività terziarie.
Se nel 1459 tali quartieri vengono circondati da una nuova e più ampia cinta di mura, che già di per sé conferiva alla città un carattere unitario, le addizioni trovano il loro completamento attraverso una serie di provvedimenti comportanti la sistemazione di una trama equilibrata di piazze urbane e di maglie viarie con collegamenti porticati che aggregano elementi di un'architettura discreta, minore, intima, qua e là interrotta da palazzetti nobiliari. Infatti anche le famiglie nobili e i privati più facoltosi concorrono allo sviluppo edilizio in città e nel suburbio.
All'esterno delle mura si edificano conventi, villini e l'ampio e superbo "casino delle delizie" passato poi nel patrimonio della Gambara che quivi avrebbe accolto l'imperatore Carlo V e dove alcune stanze, secondo la tradizione, sarebbero state affrescate da Antonio Allegri.

La Corte

Il polo d'attrazione della vita politica e sociale è rappresentato dalla corte dei Signori come luogo privilegiato delle attività artistiche e culturali, come sede celebrativa e di promozione dei decoro e dello splendore nella ricerca del consenso all'interno e all'esterno.
L'esperienza signorile correggese contraddistingue la stagione della sua corte che attraversa il periodo di maggior prestigio e vivacità nell'arco di un secolo: all'incirca tra la metà dei 1400 e la metà del 1500. Pur senza gareggiare con la magnificenza di corti famose, come quella estense e quella mantovana, riesce tuttavia a promuovere di sé e ad amministrare un'intelligente immagine esterna da piccolo Eden in cui albergano la nobiltà dello spirito e il fascino della cultura e dell'arte.
Due testimonianze d'epoca provengono dall'Aretino e ancora dal poligrafo Ortensio Lando. Il primo si spinge a definire Correggio un " paradisetto terrestre" anche se a motivarlo è più che altro la sua sensibilità gastronomica. Il secondo descrive invece un interno di civiltà cortese apprezzando le prose, le rime e l'umanità di Rinaldo Corso ~ che si era sempre battuto contro la violenza e il dilagante costume del duello - la cortesia e le rare qualità della Gambara e di Lucrezia d'Este, le doti di carità di suor Barbara (figlia di Nicolò di Correggio), della signora Virginia e di sua sorella.
La corte correggesca produce ed elabora la confluenza di diverse esperienze: da quella economico-giuridico-istituzionale a quella politico-diplomatica. Ma è sul piano della produzione culturale (letteratura, teatro, arte, musica) che essa raggiunge esiti straordinari. E qui occorre ricordare che nelle tradizioni della casata non fanno capolino solo le armi ma anche la cultura.
Azzo da Correggio era stato un grande ammiratore e amico del Petrarca che gli aveva preparato una raccolta delle sue rime (la terza fase redazionale del Canzoniere, conosciuta come "forma Correggio") e dedicato il De remediis uttlusque fortunae.
Un altro da Correggio, Galasso, aveva scritto una storia d'Inghilterra, facendo miniare il codice, oggi conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi, da Giovanni Zenone da Vaprio. Giberto IX era stato uno dei discepoli di Vittorino da Feltre che lo aveva addestrato, nella sua prestigiosa scuola mantovana, all'esercizio delle virtù cristiane, civili, politiche e anche alla virtù guerriera.
La vicenda di Nicolò da Correggio (1450-1508), poi, è emblematica perché mette in luce il contributo che le corti padane del Quattrocento hanno dato alla cultura europea nel campo della poesia, del teatro e delle arti figurative. Egli incarna la figura del gentiluomo errante, dell'intellettuale "super-municipale" che meglio rappresenta, come ha sottolineato Rinaldo Rinaldi, l'avvicinamento politico e matrimoniale tra il ducato sforzesco e lo stato estense senza trascurare il collegamento con il terzo polo mantovano.
Sua cugina, la famosa Isabella d'Este marchesa di Mantova, ci ha tramandato di lui l'immagine di un perfetto cortigiano, di un letterato e poeta raffinato, di un abile condottiero, di un esperto diplomatico e consigliere di Principi, di un impareggiabile organizzatore teatrale e di feste di massa. Anche a fronte della sua innegabile poliedricità, l'immagine appare piuttosto stereotipata e priva di quel fondo meditativo e di sommessa amarezza che aveva segnato le tappe della sua esperienza, come del resto ci rivela la sua poesia.
Sposatosi con Cassandra, una delle figlie di Bartolomeo Colleoni, era andato svolgendo un'intensa attività diplomatica-militare al servizio delle signorie estense, milanese, fiorentina.
Al primato del teatro ferrarese, che venne caratterizzandosi per la straordinaria varietà delle proposte e la complessità degli allestimenti, egli diede un contributo notevole mettendo in scena nel 1487 il suo Cefalo, una favola pastorale considerata la seconda opera profana, in volgare, della nostra letteratura drammatica dopo l'Orfeo di Poliziano.
Ispirata alle Metamorfosi di Ovidio, il Cefalo è una perfetta messa in scena mitologica, che fornisce un'immagine ideale della corte, anzi la prima figura teatrale della Corte" sulla linea dell'immaginario cortigiano che era anche del Boiardo.
Nicolò svolse importanti incarichi diplomatici presso il re di Francia poco prima della crisi che precedette la calata di Carlo VIII. A Ludovico il Moro riservò calorose accoglienze in Correggio organizzandogli una giostra alla quale egli stesso partecipò.
Mantenne rapporti con tutti i più importanti poeti e letterati del suo tempo (Lorenzo de'Medici, il Boiardo, il Pistoia, Gasparo Visconti e altri) e contribuì a diffondere la letteratura della cerchia di Lorenzo il Magnifico e ad esportare la cultura ferrarese e i modelli poetici e culturali in uso nelle corti padane in diverse città italiane e in Francia. Fu anche autore dei poemetto mitologico Psiche e di una vasta raccolta di Rime che lo pone fra i precursori del petrarchismo cinquecentesco. Il suo epistolario è di grande interesse perché offre un vero e proprio affresco della vita rinascimentale e in cui il respiro della sua terra, vista come un luogo dove l'ozio poteva favorire anche l'attività letteraria più sincera e personale" (A. Tissoni Benvenuti) appare uno dei più delicati fili conduttori.
Nicolò aveva offerto in Correggio ospitalità e occasioni di lavoro a poeti, letterati, umanisti come Bernardo Bellincioni, Ippolito Vitaliano dai Letti, lo stesso Pistoia, l'ancora sconosciuto "Prete", Antonio Valtellina.
Egli fece della sua città, di cui "aveva tenuto alto l'onore nelle lettere come nelle armi", una delle più rinomate piccole corti del Rinascimento.
Con la sua scomparsa, scompaiono anche, come scrive Antonia Tissoni Benvenuti," i valori più importanti di quel mondo: sono chiusi con lui nella tomba il rispetto per le Leggi, la Lealtà, l'Amore, la Pietà religiosa, la Speranza, la Gentilezza".
L'eredità di Nicolò fu raccolta da un personaggio femminile di notevole spicco, Veronica Gambara, che dopo la morte del marito aveva assunto la responsabilità del governo. Ammirata da letterati e scrittori come l'Ariosto, l'Aretino, il Bembo, il Bandello, Vittoria Colonna, le sue Rime e lettere ce la consegnano come una delle più riconosciute interpreti di quella letteratura femminile della metà del XVI secolo che seppe dare un grosso contributo all'affermarsi di una nuova lingua in volgare.
I tre grandi poeti di cultura e area lombarda, Boiardo, Ariosto e Tasso, che controbilanciano il monopolio imperante della letteratura toscana, avevano buoni rapporti con la corte correggesca.
Il Boiardo era parente e amico di Nicolò e proprio lui era stato chiamato come mediatore nel 1490 in uno dei soliti dissidi fra i da Correggio per l'amministrazione dello stato.
L'Ariosto, invece, nell'Orlando Furioso sigla la consacrazione ufficiale della corte correggesca: il riconoscimento di uno status symbol, e cioè una specie di imprimatur intellettuale e di omaggio al fascino femminile.
Giunto alla fine del suo faticoso peregrinare il poeta scorge per prime, tra coloro che affollano le sponde del porto, proprio le donne correggesi alle quali sembra conferire una sorta di priorità o di primato: "Mamma e Ginevra e l'altre da Correggio veggo dal molo in su l'estremo corno; Veronica da Gàmbara è con loro Si grata al Febo e al santo aonio coro". (XLVI, att. III) Beatrice detta "Mamma" era la figlia di Nicolò da Correggio e Ginevra, figlia del conte Rangoni, sua nuora.
All'inizio dell'ottava successiva la menzione è ancora per un'altra Ginevra, figlia di primo letto del marito della Gambara: "Veggo un'altra Ginevra, pur uscita dal medesimo sangue, e Iulia seco".
Come ha annotato acutamente il Dionisotti, tra la prima edizione dei poema (1516) - in cui la poetessa è vista con tratti incerti ("Veronica da Gambara mi pare", davvero singolare considerato che era grande e grossa) - e la terza e definitiva (1532), sopra riportata, c'è un notevole cambiamento.
La ripresentazione della poetessa assume maggiore spicco probabilmente a motivo del successo politico e letterario che le era stato riconosciuto in tutta la società italiana.
Al di là degli encomi e degli imbellettamenti dell'Orlando, le donne correggesi di una certa fama dovevano pur godere, non foss'altro per le straordinarie sembianze femminili che l'Allegri era andato diffondendo.
Torquato Tasso verrà a Correggio più tardi, nel 1564, ospite di Claudia Rangoni, che menzionerà in uno dei suoi Dialoghi insieme con Fulvia, nipote della Gambara.
Al coro dei laudatori di Veronica non si era ancora associato Pietro Aretino, il più temuto e linguacciuto scrittore del Cinquecento che nel 1534, a soli due anni dalla pubblicazione degli encomi dell'Ariosto, l'aveva insultata e sbeffeggiata in un Pronostico sentenziando: Isabella di Mantova partorirà in senectute sua, senza copula maritale, e un simile miracolo farà la signora Veronica Gambara, meretrice laureata".
Questo episodio di "sciacallaggio" letterario, come lo etichetta giustamente Cesare Marchi nella sua biografia dell'Aretino, sortisce effetti diversi per le due gentildonne: mentre Isabella d'Este ignorò e disprezzò l'Aretino, la Gambara, secondo il Marchi, gli si sarebbe gettata ai piedi con lettere "disgustamente striscianti" e "sprofondandosi in salamelecchi".
Mi pare che queste siano esagerazioni ed amplificazioni per rimarcare la netta antitesi di comportamento fra le due signore.
Probabilmente non era il caso di adontarsi sdegnosamente come aveva fatto Isabella per quel Pronostico, che andava preso per quello che era e che valeva, sorridendone con distaccata non-chalance.
In realtà a che cosa mirava una donna con uno spiccato senso di praticità come la Gambara? A conquistare immediatamente il denigratore, non certo con la bellezza di cui difettava, ma con una tattica volpina, ricorrendo cioè a un certo tipo di adulazione e blandendolo con qualche dono ghiotto e casereccio.
Ammesso che le sue siano lettere striscianti e punteggiate di salamelecchi c'è da dire che corrispondono in generale al costume in voga fra la maggior parte dei letterati. E quanto ai donativi, parsimoniosi anzichè prodighi, il conto farebbe in tutto qualche botte di vino, qualche scatola di pesche selezionate e qualche cassa di mele di prima qualità.
Nella sottile e briosa partita giocata con l'Aretino la bilancia mi sembra inclini a favore della Gambara. La sua abilità nello scrivere è fuori discussione e da perfetta conoscitrice dei letterati fa perno sul loro vizio principe: la vanità.
Alla fine arriva a stabilirsi fra i due uno scambio letterario, e il "divino" Pietro si sentirà obbligato a inviarle una commedia, a dedicarle un dialogo, a lodarla nei Sette Salmi e a pubblicarle un sonetto nelle Stanze.
E, soprattutto, arriverà a sbilanciarsi nettamente a suo favore, dichiarando che le sue prose erano superiori a quelle della Marchesa di Pescara (Vittoria Colonna).
Per la castellanaruola di Correggio, impegnata in tanti affari, familiari e di governo, questo scambio con l'Aretino fu un diversivo tutto sommato piacevole, ma anche la spia di uno straordinario carattere di donna che sapeva avvedutamente e giudiziosamente governare il suo stato in mezzo alle grandi e alle piccole necessità della vita quotidiana.
Tra i frequentatori della corte vi erano anche uomini di indubbio valore tra cui Giovan Battista Lombardi, medico e consigliere di Nicolò da Correggio, già insegnante di medicina e filosofia nelle Università di Bologna e di Ferrara. Aveva stretto rapporti di amicizia con Antonio Allegri che, nel 1513, gli aveva fatto il ritratto.
Quando la Gambara diventa signora di Correggio, Antonio Allegri ha quasi vent'anni. Anche se lo ricorda soltanto in una lettera a Isabella d'Este dove loda una sua Maddalena nel deserto appena eseguita, riesce a coinvolgerlo in veste pubblica in alcune importanti circostanze. Gli ultimi anni della sua vita, il pittore li trascorre nella città natale dove esegue, su commissione del duca di Mantova, che intendeva farne dono a Carlo V, la famosa serie degli Amori di Giove. Per le chiese della città aveva dipinto la Madonna di S. Francesco, il Riposo durante la fuga in Egitto, i Quattro Santi, il trittico dell'Umanità di Cristo, oltre all'affresco giovanile Madonna e Bambino fra i santi Francesco e Quirino L'Ariosto nell'Orlando ignora il Correggio e non lo include fra i maggiori pittori del suo tempo. Com'è possibile che i due più alti esponenti della civiltà padana di quegli anni non si siano conosciuti quanto meno nella piccola corte correggesca data anche l'affinità di cultura e di sentire che li accomunava? Forse la ragione di questo strano silenzio è da ricercare nell'incompatibilità di carattere fra i due artisti, cortigiano l'uno, schivo e riservato l'altro.
Non penso si possa poi affermare, come fa il Berenson, che il Correggio sia vissuto in un "meschino principato emiliano".
Come altri centri compresi tra Mantova e Ferrara, Correggio è stata sede di una corte che ha registrato presenze assai significative di letterati, artisti, spiriti colti, prelati, principi, fino all'imperatore Carlo V; insomma è stata una cittadina di stimolo e di progresso, partecipe degli ideali del Rinascimento, fra i quali andavano enucleandosi quelli di un'arte basata sulla libertà mentale, sulla libertà dello spirito.
Del grammatico e umanista Rinaldo Corso, la Gambara fu naturale patrona. Oltre a partecipare assiduamente all'attività dell'Accademia fondata dalla poetessa, attese alla stesura della sua Grammatica che conobbe grande fortuna nel corso del XVI secolo. Fra le sue opere va segnalata Delle private rappacificazioni, primo libro stampato a Correggio (1555), che analizzava l'ingiuria e la vendetta e tentava d'introdurre una normativa sui mezzi di rappacificazione privata.
Accolta con grande favore dai contemporanei ebbe una meritata fortuna critica tanto da giustificarne una ristampa nel Seicento e addirittura un'edizione contraffatta nel Settecento.
La piccola corte, colta e aggiornata, non è immune dalle idee riformatrici d'Oltralpe, come testimoniano alcune rime della Gambara e la lettera di dedica del Corso a suor Barbara di Correggio premessa all'edizione di uno scritto di Lutero.
Un ulteriore filone di ricerca sugli interessi della corte e in particolare della Gambara potrebbe essere indirizzato ad approfondire i suoi rapporti con Mariano Lenzi, che aveva pubblicato e prefato nel 1535 la prima edizione dei Dialoghi d'amore di Leone Ebreo, un'opera che ebbe una fortuna vastissima nel Cinquecento ed esercitò notevoli influssi stilla poesia di Michelangelo, sul pensiero di Giordano Bruno e di Spinoza.
Nel 1550 Giberto XI, un mese prima che la Gambara si spegnesse, sposava la modenese Claudia Rangoni, avvenente figlia di quella Lucrezia Rangoni Pico che era stata denunciata per avere posseduto il Sommarlo della Sacra Scrittura e assai criticata per i suoi collegamenti con gli ambienti eterodossi modenesi e i letterati più sospetti fra i quali aveva scelto i precettori dei figli.
Per la particolare vivacità dell'ingegno, Claudia sembrava destinata a raccogliere l'eredità della poetessa bresciana.
Nel 1552 l'immagine che circola della corte correggesca permane ancora quella dell'idilliaco paradisetto culturale. L'influenza e il magistero della Gambara sono ancora ben vivi, ma a poco a poco questo clima si deteriora e riprendono quelle accese rivalità intestine fra i condòmini che li avevano spesso indeboliti e che solo Veronica ai suoi tempi aveva saputo dirimere.
Dilaniata dalle liti familiari, la vita della piccola corte, in cui non si poteva vivere nel lusso, è vista secondo un'ottica di grigiore da Claudia che aveva sognato un futuro di successi mondani.
La contea sta perdendo prestigio e in essa si susseguono fatti di sangue, come l'assassinio della sua carissima amica Lucrezia Lombardi che aveva tradito e abbandonato il marito Rinaldo Corso.
In sede locale questi sono i sintomi più scoperti delle profonde trasformazioni che stavano maturando in un'Italia in cui la grande generazione rinascimentale era quasi scomparsa. Sul palcoscenico della storia era iniziata la tragedia che solo le coscienze più vigili avevano avvertito.
Dalla fuga di Claudia (1566), per seguire il cardinale Girolamo, alla fine ingloriosa della Signoria correggesca non manca molto: meno di settant'anni.

Le vicende dinastiche e politiche dopo Cateau Cambrésis

La pace di Cateau Cambrésis (1559) segna una lunga tregua generale nelle estenuanti lotte tra Francia e Spagna e apre il periodo storico della cosiddetta preponderanza spagnola in Italia destinato a protrarsi per oltre un secolo e mezzo. La nuova situazione di forza, pur portando alcuni vistosi cambiamenti (fra cui la fine del ducato milanese di cui si appropria la Spagna) non determina in genere la scomparsa delle signorie preesistenti. Guardando ai territori emiliano-romagnoli è vero che le signorie di Romagna, eccezion fatta per gli Estensi in Ferrara, vengono smantellate, ma occorre anche rilevare che il fenomeno è da ascrivere unilateralmente alla volontà unificatrice dei Pontefici. C'è da aggiungere che sulla scena politica emergono anche nuove dinastie come i Farnese, proclamati duchi di Parma e Piacenza nel 1545. A sud del Po era invece scomparsa la signoria dei Pio su Carpi, incorporata dagli Estensi, ma erano sopravvissuti i da Correggio, i Pico a Mirandola, i Gonzaga a Novellara mentre l'acquisto di Guastalla da parte di Ferrante Gonzaga, fin dal 1539, aveva segnato la nascita di un nuovo stato gonzaghesco che assurgerà poi a ducato nel 1621. La formazione degli stati nazionali allarga e sposta lo scacchiere politico e diplomatico su un piano europeo, declassando totalmente il ruolo degli stati italiani nella grande politica. Le piccole signorie come i da Correggio, che nessun peso avevano avuto nelle vicende italiane, perdono anche quei margini d'azione fra i diversi potentati che ne avevano contrassegnato la mutevole condotta sin verso la metà dei XVI secolo. L'unica alternativa che ora gli resta è quella di allinearsi alla Spagna o alla Francia. Se gli Estensi e i Gonzaga erano orientati verso la Francia, i da Correggio invece avevano optato per la Spagna. Come le altre signorie, i da Correggio per legittimare una certa forma di indipendenza, mantenere e accentuare la loro politica statuale personalizzata, si appoggiano alla legalità delle investiture imperiali. Prima del 1559, l'ultima investitura gli era stata confermata da Carlo V nel 1553, che l'aveva concessa ai tre fratelli Giberto, Camillo e Fabrizio figli di Manfredo e a Girolamo, secondogenito della Gambara. Anzi, proprio a Girolamo e ai suoi discendenti era toccato il feudo di Rossena, stralciato in questa concessione dai territori della contea.
Girolamo è l'ultimo personaggio a tutto tondo che si incontra nella parabola della casata: intelligente, amante della cultura, ricco di esperienza politica e militare, raffinato ma anche incline all'autoritarismo gagliardo e aggressivo. Suo zio, il cardinale Uberto Gambara, gli aveva spalancato le porte della carriera ecclesiastica ed egli si era trovato a sua volta, unico nella storia della casata, all'apice della dignità cardinalizia.
Nel conclave da cui era uscito eletto Papa Gregorio XIII il nome di Girolamo, proposto da alcuni (fra cui il cardinale Farnese), non aveva raccolto i suffragi necessari probabilmente per il suo attaccamento alla corte spagnola, ma anche, secondo voci maliziose, per i suoi equivoci rapporti con la bella e inquieta Claudia Rangoni moglie del nipote Giberto.
In effetti, sul piano sentimentale, la condotta di Girolamo era stata anche in passato piuttosto disinvolta. Da una cameriera della madre, nel 1540, gli era nato un figlio, Alessandro, che aveva poi legittimato e nominato suo erede nel condominio correggesco, scatenando una vivace reazione da parte degli altri membri della famiglia. I condòmini rivendicavano il totale possesso dei beni feudali (oltre le loro quote di proprietà sui beni allodiali) e non intendevano assolutamente dividere con un legittimato la titolarità dello stato.
C'è qui da rilevare come, ancora una volta, i problemi delle successioni provochino laceranti lotte intestine fra i condòmini; si può anzi dire che simili dissidi siano stati una costante nella storia della casata e dello stato che ne uscivano fortemente indeboliti. Nel 1572, alla morte del cardinale, si era aperta quella che può essere considerata la più aspra di tali controversie, che avrebbe impegnato per anni le energie e le risorse della casa con conseguenze assai gravi per la stessa sopravvivenza dello stato.
Dopo appelli e ricorsi ai tribunali imperiali e agli arbitrati di diverse corti, la nuova investitura accordata dall'imperatore Rodolfo Il ai conti di Correggio (1580, 3 marzo) aveva compreso anche Alessandro fra gli aventi diritto.
Camillo e Fabrizio non vollero adeguarsi ed anzi fecero confiscare dal Podestà i beni di Alessandro che per ritorsione scatenò nel territorio correggese gravi episodi di violenze, incendi, devastazioni.
Per garantirsi da queste continue turbative e, soprattutto timoroso dell'appoggio che Alessandro andava cercando presso gli stati vicini (particolarmente presso i Farnese), Camillo chiese ed ottenne un presidio spagnolo che il 29 agosto 1584 si insediava in Correggio. Questa mossa sconsiderata (dopo la morte del fratello Giberto al governo era andato Camillo) coronava finalmente i tentativi della Spagna di avere un caposaldo di rilevanza strategica a sud del Po che le permetteva di incunearsi e compensare certe debolezze nel controllo di determinate aree territoriali.
In un'epoca in cui non era più sufficiente possedere solo qualità militari, ma anche politiche e diplomatiche, Camillo era rimasto fondamentalmente il guerriero delle Fiandre. Gli altri stati vicini e persino Roma si erano allarmati, ma Camillo aveva ingenuamente creduto che la Spagna, rispettando i patti convenuti, ritirasse il presidio dietro sua richiesta se non gli fosse più servito. In realtà la Spagna non era assolutamente intenzionata a smobilitarlo e frapponendo difficoltà e pretestuose dilazioni riuscirà a mantenerlo nella città per oltre settant'anni.
Le vertenze familiari per la divisione e l'amministrazione del feudo si complicarono ulteriormente quando Alessandro e persino il fratello Fabrizio decisero di cedere i loro beni al duca di Mantova, lasciando tra la fine del secolo e gli inizi del nuovo Camillo solo a dibattersi in disperati tentativi fra Madrid e Milano per ottenere lo sgombro del presidio.

L'incorporazione dello Stato correggesco nel Ducato estense

Alla sua morte, nel 1605, Camillo chiamò alla successione nello stato il figlio Giovanni Siro, nato da una relazione extraconiugale, che aveva legittimato pochi mesi dopo la nascita sposandone anche la madre per regolarizzare una situazione che avrebbe potuto prestare il fianco a possibili contestazioni.
L'esordio di Siro, quindicenne, fu tutt'altro che facile per il ripetersi del tradizionale canovaccio dei dissidi familiari (nel caso specifico con il fratello Cosimo al quale erano toccati i beni allodiali) per la divisione del patrimonio e l'esercizio di certi poteri che offrirono al presidio spagnolo ulteriori occasioni di protezione e di ordine.
Con calcolo sottile l'Impero contestò a Siro, ritenendolo illegittimo, quella stessa capacità di succedere al padre che Camillo, a suo tempo, aveva contestato ad Alessandro, decretando la devoluzione del feudo al Fisco imperiale (16 ottobre 1612).
La micidiale minaccia all'indipendenza dallo stato venne scongiurata grazie all'abile azione diplomatica del correggese Ottavio Bolognesi, inviato da Siro come suo legato presso la corte imperiale di Vienna, e all'intervento dell'ambasciatore di Spagna a Praga, ma soprattutto all'esborso di 120.000 fiorini.
Nelle more delle trattative, il prezzo inizialmente richiesto era salito a 150.000 fiorini e solo con un prestito e ipotecando per sette anni lo stato (e cioè le entrate dei beni feudali e degli allodiali) Siro riuscì ad ottenere sia l'investitura (1615, 30 marzo) sia l'erezione di Correggio a Principato e il titolo di principe per sé e i suoi discendenti 1616, 13 febbraio).
La trasformazione della signoria correggesca in Principato se rappresentava un'ideale continuazione e un allineamento ad altre realtà politiche emiliano-romagnole si traduceva per il principe in un assillo ad uscire dalla morsa dei debiti.
Le vicissitudini di Siro si ripercossero ancora minacciose sullo stato a causa di una grossa lite con l'Inquisizione che egli si attirò inconsultamente addosso nel 1617 per aver fatto aggredire e ferire il frate inquisitore Girolamo Zambeccari, come si chiarirà in seguito nel contesto delle vicende della zecca.
Costretto a costituirsi nelle carceri del S. Uffizio a Milano, scrivendo al suo segretario, il Principe gli manifestava una lucida intuizione: "credete a me che il mio Stato è quello che mi fa la guerra et ho molti che sono innamorati di lui LI e persone alte, so che m'intendete, si che questi sono li miei inimici e non li Zambeccari. " Purtroppo Siro non prestò molta memoria a quest'analisi della situazione che fin dagli inizi non gli era stata per niente favorevole. E in effetti il primo tentativo di impadronirsi di Correggio da parte della Spagna era stato messo in atto con le accuse di illegittimità, mentre il secondo pretesto si era presentato con l'episodio del frate che lo aveva costretto a subire la carcerazione per oltre un anno. Lo aveva liberato il papa Paolo V che nutriva il timore di vedere Correggio definitivamente in mano alla Spagna.
Il terzo tentativo si sviluppò in due tempi. Nel 1623 la Camera imperiale aveva aperto un procedimento giudiziario contro di lui per falsificazione e adulterazione della moneta che il Principe non si era curato di fermare o risolvere in tempo tramite una composizione in denaro.
Dopo essere rimasto pendente per alcuni anni, il procedimento venne ripreso nel 1629 all'epoca della guerra di successione di Mantova e del Monferrato che segnava di nuovo l'intervento delle potenze europee nelle vicende interne degli stati italiani (la Francia sosteneva i Gonzaga-Nevers, Spagna e Impero la candidatura di Ferrante Gonzaga, principe di Guastalla).
Siro fu sospettato di parteggiare per i Gonzaga di Nevers richiamando l'attenzione dell'Impero e della Spagna sul Principato e offrendo il pretesto al rinnovo delle accuse alla gestione della zecca.
Si cercò subito di metterlo in condizioni disperate approfittando di un piano di acquartieramento a Correggio, Campagnola e Fabbrico di un elevato contingente di truppe imperiali ritirate dall'assedio di Mantova, il cui mantenimento era sproporzionato rispetto alle risorse economiche del piccolo principato.
Alle proteste del principe il governatore di Milano aveva rincarato la dose rinforzando la guarnigione spagnola col pretesto di controllare le azioni, rapaci e violente, dei soldati alemanni.
Una rete di intrighi, di interessi e di aspirazioni si strinse intorno al Principato, la cui sorte era ritenuta ormai compromessa, solleticando gli appetiti di alcuni signori fra i quali il più interessato era indubbiamente il duca di Modena che seguiva una precisa strategia di assorbimento degli stati confinanti: Correggio appunto, Mirandola, Novellara, Massa Carrara.
Ma anche i duchi di Guastalla, il conte Rambaldo di Collalto, capo delle truppe imperiali in Italia, l'arciduca Leopoldo d'Asburgo, la corte mantovana e qualche altro personaggio ancora, si agitavano per il possesso di Correggio in cui dal febbraio 1630, prima di rifugiarsi nel convento dei Cappuccini di S. Martino d'Este, Siro aveva nominato la moglie Reggente come tutrice del figlio Maurizio.
Da Milano erano giunti i consiglieri aulici per celebrare il processo che si concludeva con la proclamazione della decadenza del Principe contumace, della confisca dei beni e delle rendite, salvo lo sborso di 300.000 fiorini poi ridotti a 230.000.
Siro non era in grado di pagare una somma cosi esorbitante in anni di vessazioni, saccheggi e peste per Correggio. Fra il 1631 e il 1634 egli si trovava ancora sul territorio tentando inutilmente di annullare o appellare la sentenza, trovare aiuti e denaro, abbandonato anche dai cittadini che il 29 marzo 1634, riuniti nel Consiglio Generale del Principato, nella sala che sarà poi chiamata "Della congiura", ne deliberavano l'allontanamento. Il Principe era ridotto al lumicino e i conti in tasca glieli avevano fatti senza sbagliare. Inutile illudersi o aspettare che la vittoria dei francesi gli restituisse il feudo o aggrapparsi al calcolo mentale che, riscattandolo, la titolarità anziché a lui sarebbe toccata al figlio Maurizio.
Questa volta la proverbiale spilorceria di Siro affondava realmente nella totale penuria di denaro e nemmeno la sua zecca, chiusa, avrebbe potuto più soccorrerlo.
La Spagna, pagando i 230.000 fiorini, si impadroniva di Correggio lasciando farisaicamente al figlio di Siro la facoltà, puramente teorica, di riscatto. Dopo circa due anni, nel 1635, lo cedeva al duca di Modena, probabilmente perché le entrate erano minori di quelle intraviste e anche perché gli Estensi ora si erano avvicinati politicamente all'Impero.
Nel 1642 Siro si recava a Vienna per compiere un ultimo tentativo diretto ad ottenere almeno la concessione dei beni allodiali e degli alimenti, ma trovò ostilità e carcerazione.
La casata si estingueva nel 1711 senza che i suoi discendenti (Maurizio prima, che realisticamente si accontentò di un compenso sugli allodiali, il nipote Giberto e il pronipote Camillo poi) riuscissero più a rientrare in possesso del dominio correggesco.

L'organizzazione del potere

Con il diploma di investitura del 16 maggio 1559, concesso da Ferdinando I, il castello di Correggio viene dichiarato per la prima volta "città" e i Signori che lo detengono, in qualità di feudo imperiale, ricevono da questo atto confermativo la legittimazione formale del loro potere, cosi come era stato per le precedenti concessioni imperiali nella storia della casata a partire, come si è visto, dal 1452.
Quando nel 1616 Correggio viene elevata a Principato e Siro muta il suo titolo in quello di Principe del Sacro Romano Impero per diritto ereditario, i contenuti e le forme del suo potere non mutano rispetto a quelli dei predecessori palesando, nel caso specifico, un processo di continuità verso modelli relativamente assolutistici.
In altre parole se la nuova dignità principesca rafforza il prestigio di Siro sul piano dell'immagine pubblica, consolida anche l'esercizio di un potere diretto sui sudditi che peraltro era sempre stato accentrato nelle mani dei da Correggio quali titolari di poteri di legislazione, governo e giurisdizione. Elementi questi che caratterizzano la vita interna degli stati formatisi attraverso la signoria di una famiglia che vi si era poi consolidata.
L'architrave dei potere emerge dagli ordinamenti e dagli Statuti della città che rappresentano l'espressione unilaterale della volontà dei Signori e insieme la condizione di sudditanza dei cittadini. In essi la "Comunità" è infatti ridotta a un ruolo prettamente amministrativo.
I due testi che rimangono sono i Capitoli e Privilegi del Consiglio de' Sig.ri Venti di Correggio e gli Statuta Civitatis Corrigiae che fanno presupporre ordinamenti e raccolte anteriori che non ci sono pervenuti.
I Capitoli, pubblicati dal cardinale Girolamo e successivamente confermati dal principe Siro, si conoscono attraverso la stampa che ne fece a Carpi Girolamo Vaschieri nel 1619.
Gli Statuta raccolgono invece le leggi, gli editti, le gride e le consuetudini del territorio correggese vigenti dai secoli XV e XVI.
Quest'opera di unificazione era stata avviata dal conte Giberto XI col concorso del cardinale e, parallelamente ad essa, si erano aggiunte le "costituzioni" promulgate da Siro. L'intero corpus legislativo, qua e là riveduto, corretto e integrato era stato stampato a Modena dal Soliani nel 1670. Gli antichi Statuti, in latino, sono divisi in tre libri, le costituzioni di Siro, redatte in italiano, in quattro.
I Signori esercitavano il potere attraverso gli officiales che erano una sorta di funzionari alle loro dipendenze e fra i quali il Podestà era quello di grado più elevato. Accanto al Podestà, che assumeva anche le funzioni di giudice unico in primo grado, gli altri "officiali maggiori" erano l'Auditore di palazzo, giudice in terzo grado, il Segretario del principe e il Priore degli Anziani, quest'ultimo non di nomina burocratica, ma espressione, come si vedrà, del Consiglio dei Venti.
Gli organici degli ufficiali prevedevano altre tre categorie: i "minori", gli "inferiori" e gli "infimi". Erano ufficiali minori il Procuratore Fiscale, gli Anziani di Correggio, il Cancelliere di segnatura, il Podestà di Fabbrico, il "Mastro di Casa"; inferiori, i Capitani, gli Alfieri, i Sergenti delle milizie, i Massari della Comunità e i Dogaroli; infimi, i Consoli (che in ogni villa sovrintendevano alla condotta degli abitanti), il Bargello e i suoi fanti, gli Aguzzini.
Facevano capo al Podestà, insieme con il Vicario, il giudice degli appelli, i consoli, gli Ufficiali delle tre categorie impegnati nella macchina della giustizia e i garanti della tutela militare e dell'ordine.
La Comunità era amministrata da un Consiglio formato da 20 cittadini correggesi (esclusi gli abitanti del forese) scelti dal Signore fra le seguenti categorie: quattro dottori di legge o in loro mancanza "artisti", quattro notai, otto cittadini che non esercitassero la mercanzia "con fondaco aperto", quattro mercanti ivi compresi gli artigiani. Fra questi vengono sorteggiati cinque Priori di cui quattro con la qualifica di "Anziani" e il quinto di "Provveditore della Piazza" che durano in carica un anno.
Il connotato principale della civica reggenza, che con meccanismi assai complicati sorteggia i Priori e rinnova annualmente un quarto dei suoi membri, è di risultare un organismo elitario che promana da scelte uni laterali dei Signori operate con un metro estremamente selettivo.
Praticamente alla guida e agli uffici della Comunità sono chiamati gli esponenti dei ceti superiori, delle famiglie blasonate, dell'alta e media borghesia e del notabilato, con una percentuale vistosamente bassa (un quinto) dei ceti intermedi e delle classi lavoratrici e con l'esclusione dei rustici.
Infatti uno dei requisiti per entrare a far parte del Consiglio è il possesso della cittadinanza correggese che discrimina gli abitanti del contado da quelli della città che vengono per questo a godere di alcuni privilegi, fra i quali l'esenzione dal servizio militare e dalle fazioni rusticali.
Di fatto l'orgoglio e il decoro di abitare a Correggio, riconosciuta ufficialmente come città, sede principale dello stato e del potere, si traduceva, come altrove, nella ricerca e nell'accaparramento di diritti e di esenzioni particolari a tutto vantaggio delle classi privilegiate; e questo non faceva che aumentare le distanze e rimarcarne la superiorità rispetto alla generalità dei cittadini e agli altri centri minori del territorio, i borghi e le ville.
Al Consiglio spettava una generale potestà di intervento in "tutte le cose pubbliche" e, in particolare, di eleggere il Dogarolo e l'Aguzzino di Piazza (sottoposto al Provveditore), sindacare l'operato del Podestà, tutelare i minori, gli orfani e le vedove, deliberare in materia di opere pubbliche e d'annona, esercitare poteri regolamentari e di conciliazione.
Al tempo di Siro il Consiglio Pubblico (esisteva anche un Consiglio generale del Principato) non poteva riunirsi senza il suo permesso e l'intervento obbligatorio del suo Procuratore Fiscale.
Queste circostanze lasciano ben pochi dubbi sul problema dei margini di autonomia e del peso effettivo di cui poteva godere l'organismo cittadino, almeno negli ultimi anni del principato.
Le leggi dello stato correggesco, organizzate sistematicamente negli Statuti, come si è visto, pur valendo per la generalità dei sudditi, in realtà erano ignorate dalla maggioranza della popolazione, in condizioni di analfabetismo e per la quale la lingua latina era, oltre tutto, inaccessibile.
I tre libri in cui è distribuita la materia del nucleo più antico, abbracciano e intrecciano senza partizioni distinte il diritto civile e penale, il diritto pubblico, il diritto amministrativo, commerciale e le norme procedurali.
La legislazione di Siro, che integra la normativa preesistente, raccoglie in quattro libri "provvisioni" disparate in cui le materie predominanti riguardano i delitti contro la religione, il culto, le persone (I); i delitti contro il patrimonio del Principe, del Fisco, dei privati e le disposizioni per l'amministrazione della giustizia (II); le armi, i banditi, i rumori, la sicurezza pubblica, l'archivio notarile (III); estimi e tasse, caccia, danni arrecati agli animali, agli alberi, e dal pascolo del bestiame (IV).
Gli Statuti mettono in luce diversi aspetti e meccanismi della vita quotidiana di Correggio, del distretto e delle ville, rivelando anche la loro natura di strumenti di rafforzamento del potere signorile, di difesa rigida della proprietà privata secondo i principi tramandati dal diritto romano che legittimava l'atrocità delle pene. Sotto questo aspetto è possibile constatare come il settore della legislazione che rimane più ancorato a forme primitive risulti quello attinente al processo penale, la cui applicazione era contrassegnata dalla crudele tradizione dei supplizi peraltro comune agli Statuti di quest'epoca. L'uso della tortura per costringere gli indiziati a confessare le colpe era generalizzato mentre notevole peso veniva assicurato alle denunce anonime.
I supplizi eccedevano in atrocità e le pene previste erano di regola la capitale (decapitazione, impiccagione alla forca, squartamento, mazzolatura con la mazza, rogo), la corporale (estirpazione della lingua, amputazione della mano, fustigazione pubblica, ecc.), la pecuniaria.
Venivano comminate anche pene infamanti (tipica la "berlina") mentre le pene di tipo detentivo non erano infrequenti.
Fra queste la "galera perpetua" era riservata ai ladri di cose sacre o di cose profane in luogo sacro, se il valore eccedeva i venticinque scudi ma non superava i cinquanta, oltre il quale si incorreva nella forca. Fatti di non grave entità, come per esempio l'uscire da Correggio senza passare attraverso le porte, venivano puniti gravemente.
I rapporti sessuali fra ebrei e cristiani prevedevano la pena di morte e lo stupro era punito diversamente a seconda che la donna fosse nobile oppure no.
In una società in cui l'agricoltura era il cardine dell'economia numerose disposizioni regolavano la disciplina della proprietà, i rapporti fra locatario e locatore, il lavoro dei braccianti, prevedendo inoltre l'osservanza rigida di diverse pratiche colturali che potevano assicurare buone rendite e soddisfacenti entrate ai proprietari.
Come ha osservato Vanna Barbieri, le norme statutarie rappresentano la difesa pressoché incondizionata del diritto e dell'autorità padronale secondo concezioni feudali che lasciavano ai lavoratori esigui margini di difesa contro gli arbitri dei proprietari. Il coltivatore trascinato in giudizio era costretto a soccombere nella morsa di un sistema che prestava fede solo al giuramento e alle prove prodotte dal proprietario senza lasciargli la possibilità di difendersi. Altre disposizioni assai limitative vincolavano alla terra il colono che non riusciva a soddisfare il proprietario nel pagamento del canone annuo impedendogli di trasferirsi altrove.
Nelle ville i consoli erano coadiuvati da altri officiali come i "campari" e i "gualdemanni" e i custodi delle chiusure e delle pendici, che erano guardie campestri con funzioni appunto di sorveglianza e di polizia rurale e con obblighi di denuncia dei danni e dei reati che potessero nuocere alla terra e alle coltivazioni.
Come si può rilevare, una fetta consistente dell'apparato repressivo era destinata alla vigilanza dei poderi, bersaglio ricorrente dei reati di furto, soprattutto in tempi di carestia.
I giudici erano scelti dai Signori e già questa circostanza ne incrinava fortemente l'indipendenza del giudizio. In primo grado, come si è detto, decideva il Podestà, in secondo il giudice degli appelli e in terzo l'Auditore di Palazzo.
Col subingresso degli Estensi nel Principato, che ne mantengono formalmente immutate le strutture, a un potere se ne sostituisce un altro non meno rigido. il Consiglio della Comunità verrà controllato da un Governatore alle dipendenze dirette del duca, il Podestà sarà svuotato delle funzioni giudiziarie da un Giusdicente, mentre le cause più importanti verranno deferite ai Tribunali di Modena e Reggio.

La Scuola laica della Comunità

La scuola pubblica, affidata ai maestri, era uno strumento dell'autorità costituita per la formazione della classe dirigente e la copertura dei posti e degli incarichi nelle carriere pubbliche.
Dalle scarse notizie rintracciate si può dedurre che non avesse un carattere elementare, ma garantisse un'istruzione medio-superiore abbinando insegnamenti di umanità, grammatica e retorica e successivamente anche di logica e filosofia. Chi voleva proseguire e completare gli studi se ne andava in una qualche università.
Tuttavia un minimo di considerazioni è possibile fare, se non sui contenuti e metodi dell'insegnamento, sui criteri di reclutamento degli scolari.
Il Consiglio della Comunità, autorizzato dai Signori, si obbligava ad assicurare al maestro dai 28 ai 30 scolari che appartenevano per la quasi totalità a famiglie correggesi, con l'eccezione, per il distretto, di quattro o cinque scolari provenienti da Fabbrico e Campagnola.
Ad essere reclutati sono i rampolli delle famiglie che rappresentano il gotha del ceto abbiente cittadino, dei nobili e dei notabili, e costituiscono il perno di una società stratificata e gerarchizzata che ad esse attinge per i suoi quadri dirigenti.
I contratti stipulati dalla Comunità coi maestri hanno di solito durata triennale e la spesa rimane a carico delle famiglie; i compiti di vigilanza sono riservati al Consiglio.
Non tutto filava liscio, perché la posizione del maestro non era tale da riscattarlo da un rapporto di precarietà nei confronti delle famiglie che dovevano pagarlo e mandargli i figli.
Egli era troppo esposto alle critiche e alle maldicenze, trovandosi praticamente in balia di coloro che avevano censo e potere in un ambiente sociale tutt'altro che facile.
I da Correggio favoriscono questa scuola laica affidata ai maestri privati pagati dalle famiglie che, forse, non godeva del consenso unanime. Uno dei maestri è accusato di essere "calabrese, senza amore, senza fede e senza religione" e qualche altro interrompe il contratto prima della scadenza del termine. In ogni caso non era agevole trovare e far venire da fuori i maestri e in certe epoche l'anno scolastico, suddiviso in due semestri che iniziavano a settembre e a marzo, saltava.
Un Principato non poteva essere sprovvisto di scuola che dava un tono di elevazione a Correggio e cosi nel 1618 si trovò un maestro cui venne conferito l'incarico. Non è dato sapere per quanto tempo abbia protratto il suo insegnamento. Nel 1623 si ha notizia di lagnanze per le costose riparazioni che il maestro era stato costretto ad effettuare ad un fabbricato che non aveva poi utilizzato come sede della scuola.
Non sappiamo se il maestro fosse ancora il medesimo. Prendiamo atto che con una richiesta di rimborso spese pare che cali il silenzio sulla scuola negli anni del Principato.
Gli Estensi confermano il sistema scolastico locale, l'autorità del Consiglio e dei Priori e i tradizionali criteri nella formazione delle liste degli scolari. Ma con la tradizione permangono anche le difficoltà e le condizioni di disagio del maestro (in quarant'anni il suo compenso non subisce variazioni) che rivolge al Governatore pressanti istanze per ottenere i pagamenti dovuti da parte delle famiglie.
La crisi di un sistema scolastico che non subisce nessun adeguamento ai tempi non tarda a farsi sentire.
Sarà solo nel secolo successivo, con la chiamata degli Scolopi nel 1723, che Correggio potrà decollare verso un sistema di istruzione di piena affidabilità, partendo dalle scuole basse e aprendo l'insegnamento anche agli strati sociali inferiori.

La zecca, industria di Stato

La questione della zecca è strettamente legata alla vita dello stato, caratterizzato da una concezione patrimoniale che non separa i confini tra spesa pubblica e patrimonio privato del Signore. Col diploma di investitura del 16 maggio 1559 l'Imperatore aveva concesso ai da Correggio, in accoglimento di una loro precisa istanza, la facoltà di istituire un'officina monetaria e di battere moneta d'oro, d'argento e di rame di qualsiasi genere e valore con le insegne delle loro armi e le iscrizioni del loro nome. I Conti correggesi aspettano dieci anni prima di avviare l'attività della zecca e probabilmente questa lunga remora iniziale, più che ad atteggiamenti di cautela, è da ascrivere ancora una volta alle divergenze di vedute e ai diversi orientamenti dei due rami condominiali. Sta di fatto che, dopo una fase di rodaggio di due anni circa, la zecca viene appaltata ufficialmente il 5 luglio 1571 poco prima della morte del cardinale, ammalato e sofferente, il cui nome non apparirà mai in nessun contratto.
Piuttosto, l'impressione che si ricava è di una certa smania dei da Correggio di voler recuperare il tempo perduto, sia per il rafforzamento politico e di immagine che ne avrebbero guadagnato con l'esercizio del potere monetario, sia per incrementare l'economia della contea in un periodo in cui in tutta l'Europa si verifica una grande espansione dell'offerta di moneta per l'afflusso dell'argento proveniente dall'America.
L'istituzione della zecca, se contrassegna il momento di massima affermazione dello stato, contiene anche i sintomi della sua crisi finale per lo squilibrio che viene a determinarsi nella modesta economia correggese. La sua attività è stata suddivisa dal Corpus Nummorum Italicorum in cinque periodi: monete anonime dei conti Giberto, Fabrizio e Camillo 0569-1580); monete dei conti Fabrizio e Camillo (1580-1597); monete del conte Camillo 0597-1605); monete di Siro conte 1605-1616); monete di Siro principe (1616-1630).
La prima locazione è concessa al reggiano Giovanni Antonio Signoretti e successivamente a Giulio Cesare Frassetti fino al 1581 e al bresciano Marco Antonio Ferrandi fino al 1603. In tale anno Camillo chiama come zecchieri Abramo Jaghel e Davide Ricco, due ebrei residenti a Correggio, con un contratto di durata decennale.
In uno stato che traeva dall'agricoltura la sua principale ricchezza, la zecca ne diventa l'industria più importante che assicura una delle più spicce fonti di introito e i cui indici di produttività, per cosi dire, sono testimoniati nei diversi periodi dal volume assai elevato delle emissioni.
Oltre gli zecchieri essa impiega fonditori, stampatori, incisori, inta gliatori, operai, saggiatori, pesatori, cassieri.
I meccanismi di controllo sugli zecchieri, che ricavano utili di tutto rispetto dalla loro attività, risultano in ogni tempo inadeguati e inefficaci e ciò provoca intorno alla zecca fin dagli inizi una sequela di conflitti di interesse e anche certi disordini nella circolazione monetaria.
Se di irregolarità, almeno fino a un certo periodo, si può anche parlare, queste riguardano il fenomeno della emissione delle monete calanti, vale a dire alleggerite nel valore intrinseco (e cioè di peso inferiore e per giunta di lega cattiva), che costituiva peraltro uno dei mali cronici delle zecche italiane.
Pare accertato, per esempio, che Camillo e Fabrizio avessero consentito l'emissione di "bolognini" notevolmente alleggeriti di peso da destinarsi ai soli mercati del Levante, operazione assai redditizia praticata da altre zecche importanti come quella di Venezia.
A Correggio il fenomeno toccava la moneta "piccola" e cioè i pezzi di minor valore (soprattutto sesini, camillini, muragliole, soldi, par pagliole) che erano quelli prevalenti nella circolazione interna e di facile penetrazione nei centri vicini. La loro sopravvalutazione rispetto all'intrinseco rappresentava per lo stato un agile sistema per procurarsi delle entrate.
D'altra parte anche i da Correggio dovevano proteggersi contro la circolazione di moneta piccola calante prodotta dalle zecche vicine e in alcune occasioni avevano bandito i sesini "cattivi" che provenivano dall'esterno a seguito dei normali scambi commerciali.
Fino al 1605 l'attività della zecca, a giudizio di Vittorio Mioni, oltre a non presentare fatti particolarmente negativi è caratterizzata da un livello qualitativo quanto meno accettabile.
Successivamente, a partire dal 1612, alcuni episodi andrebbero forse interpretati come una forzatura di certe situazioni da cui ricavare denaro che a Siro necessitava per la conferma dell'investitura. In ogni caso col 1617, subito dopo l'elevazione della contea a Principato, si apre il periodo più torbido e traumatico dell'attività della zecca che in poco più di dieci anni travolge, nella sua chiusura, lo stato correggesco.
Le difficoltà e le inadeguatezze, che in passato l'avevano afflitta, si amplificano e degradano nelle frodi, malversazioni, liti, denunce anonime, accuse, interessi personali. D'ora in avanti la sua sarà una storia di processi nei quali si avvicenderanno, nelle vesti di accusati e accusatori, tutti i protagonisti di questo singolare sottobosco.
Nel 1617 gli zecchieri Pareschi e Ghiselli, accusati di adulterazione di monete d'oro, a loro volta lanciano controaccuse di opinioni eretiche ai mercanti che li avevano denunciati, provocando l'intervento del Tribunale del S. Uffizio di Reggio. Il fatto, inizialmente circoscritto agli imputati, è destinato ad avere non piccole ripercussioni sul Principato a causa dell'aggressione, ordinata da Siro, del frate inquisitore che aveva prelevato dalle carceri i sospettati senza il suo permesso.
Nel 1619 la zecca rinnova i suoi rituali compromissori e giudiziari nelle persone di Magno Lippi e del lorenese Giovanni Renouilles, rispettivamente conduttore e sublocatore. Le vicende si fanno sempre più convulse e complicate da seguire negli intricati contenziosi che coinvolgono anche i francesi Nicola De La Ferté e Riccardo Toussaint, nuovi zecchieri.
Tra le pause di una litigiosità senza esclusione di colpi si inserisce gra dualmente, e in maniera quasi anonima, un maestro della falsificazione e della truffa legalizzata, il genovese Agostino Rivarola che nel 1620 subentra al Toussaint.
Il Rivarola era un personaggio noto per i suoi precedenti giudiziari. A Parma, dove aveva lavorato come zecchiere del duca, era stato processato per adulterazione di monete, ma ne era uscito assolto. Poi, tramite appoggi ed entrature particolari, aveva ottenuto la conduzione della zecca di Mirandola.
Gli errori degli altri e una tattica accorta gli avevano permesso di diventare il padrone della situazione nella zecca correggese dopo un anno. Egli ne fa una dispensatrice di tangenti e di percentuali per alcuni personaggi assai vicini al Principe. Il cognato di Siro, il fratello dell'altra cognata del Principe e anche Andrea Personali, nobile mirandolese suo amico, ne traggono percentuali a titolo diverso, tutti invischiati nella greppia statale dall'abile manovra del Rivarola che vuole servirsene come sponde per i suoi traffici.
Il 1623 è un anno cruciale per la zecca. A quell'epoca il Rivarola ne gestiva tre: a Correggio, Mirandola e Tresana (un piccolo marchesato, oggi in provincia di Massa Carrara), di cui le ultime due in società. L'idea delle tre zecche era assai ingegnosa perchè gli avrebbe permesso non solo di far perdere facilmente le tracce dei suoi illeciti, ma anche di distribuire e meglio pianificare la sua attività criminosa.
Siro si era trovato in lite con la cognata per avere disconosciuto il testamento del fratello, morto in quell'anno, che l'aveva nominata sua crede. Per ritorsione la vedova e i parenti di lei gli avevano lanciato contro una serie di accuse di falsa monetazione presso i tribunali dell'Impero, rinnovando i sospetti che la zecca aveva suscitato fin dal 1617. Tutto questo avveniva in concomitanza con le lagnanze dei banchieri e dei commercianti tedeschi presso la corte per l'inquinamento monetario causato soprattutto dalle zecche italiane minori.
Per giunta, nel novembre, la Repubblica di Venezia aveva condannato in contumacia il Rivarola e il suo socio di Mirandola per contraffazione di diverse monete fra cui anche quelle dello stato veneto.
Mirandola e Correggio si trovano costrette ad aprire due distinti processi contro i presunti falsari e i loro collaboratori.
Al Rivarola viene contestata soprattutto la coniazione di ongari d'oro falsi, battuti a Tresana e dorati a Mirandola con una tecnica speciale (il "tirimpello") che consisteva nell'applicare alla moneta un sottile strato di coloritura rendendola brillante. Lo zecchiere si difende sostenendo che si era servito del tirimpello, ma solo per lucidare monete d'oro e non per ricoprire monete di rame o calanti.
Il socio mirandolese scarica invece sull'altro socio di Tresana del Rivarola (il correggese Girolamo Donati) la colpa di aver fatto battere a Correggio monete simili alla doppia di Genova (una moneta d'argento) In particolare a Siro venne contestata la falsificazione di talleri imperiali e inoltre di un tallero del Tirolo dell'arciduca Leopoldo.
Almeno per quanto riguarda quest'ultima contraffazione i più recenti studi concordano nell'attribuirne l'emissione alla zecca di Tresana, artefice quello stesso falsario, Agostino Rivarola, che conduceva anche la zecca di Correggio.
Le vicende del feudo e quelle della zecca, come si è sottolineato all'inizio, sono strettamente intrecciate perché su di essa il Principe cerca di scaricare il peso dei propri debiti.
Non si può tuttavia dimenticare che il processo contro Siro è l'ultimo atto di una fine annunciata molti anni prima, che soltanto nella politica ha i suoi veri moventi.

Demografia ed economia

Sull'andamento demografico della contea correggesca nel corso del XVI secolo non sono emersi sino ad oggi fonti particolari o dati complessivi. F. Cafarri ha indicato approssimativamente in poco più di 10.000 gli abitanti soggetti all'effettivo dominio correggesco (Correggío e ville, comprese Rio Saliceto, Fabbrico, Campagnola, Rossena e Rossenella), senza specificare la fonte delle sue deduzioni. Si può vero similmente ritenere che l'andamento non si discosti da quello del territorio reggiano.
Dati precisi e di grande interesse si hanno invece per il secolo successivo a partire dal 1644. in tale anno il Principato contava 7993 abitanti, di cui 1970 a Correggio, 3825 nelle 22 ville, 975 a Campagnola e 1403 a Fabbrico. A quella data gli spagnoli, comprese le loro famiglie, erano 241 e gli ecclesiastici 215. Le più numerose erano le famiglie rurali e a Correggio città l'81% della popolazione era compresa tra 0 e 40 anni.
Per il 1690 disponiamo di altri dati di "descrizione delle famiglie", però limitati alla sola città di Correggio, conservati nell'Archivio di Memorie Patrie, che mostrano una buona fase di crescita della popolazione durante la seconda metà del secolo.
Gli abitanti, suddivisi nei vari quartieri, risultavano 2367 con una percentuale di crescita del 20,15% rispetto al 1644. Nel quartiere detto del Portico dei Debiti, in Piazza Padella, abitavano 100 persone, gli ebrei erano 39 e nella Rocchetta alloggiavano 8 sbirri. L'entità degli ordini religiosi (compresi gli inservienti) era la seguente: Padri di S. Domenico 32, Padri di S. Francesco 16, Padri del Carmine 12, Padri Cappuccini 14, Monache del Corpus Domini 18, Monache terziarie di S. Francesco 12.
La struttura economica del Principato evidenzia anzitutto il grande peso esercitato dal ceto oligarchico cittadino sul contado rivelando una forte concentrazione della ricchezza fondiaria. In proposito sono fondamentali le ricerche e i dati pubblicati da 0. Rombaldi sulle possidenze che evidenziano, su un'estensione di 17.765 biolche di terra in proprietà, un'incidenza percentuale del 25,2% dei piccoli proprietari, del 22,7% dei proprietari medi, del 22% dei medio-grandi, del 31,1% dei grandi.
In particolare ci sono 29 proprietà medio-grandi con 3.905 biolche e 16 98 grandi proprietà con 5.346 che detengono, perciò, il 53,1% della superficie e del valore. Gli elenchi degli intestatari con più di 200 biolche rivelano inoltre che i maggiori possidenti appartengono per la quasi totalità alle famiglie correggesi investite, nella gestione pubblica, di incarichi ed uffici. Viene dunque confermata la linea di tendenza alla formazione della grande proprietà. A questa ristrettissima cerchia di privilegiati fa riscontro la fascia delle piccole e piccolissime proprietà (da 1 a 30 biolche) che risultano 544 per un totale di 4.491 biolche il cui reddito è, a seconda dei casi, appena sufficiente o del tutto insufficiente a garantire da solo il mantenimento economico. La mezzadria era la forma di conduzione più diffusa e consentiva ai proprietari, grandi e medio-grandi, di adagiare il loro immobilismo sulla tranquilla rendita fondiaria che gli permetteva di mantenere in città un elevato tenore di vita e il godimento delle esenzioni e dei privilegi.
In città le classi lavoratrici (artigiani, bottegai, operai, prestatori di servizi) non avevano rendita fondiaria e su di esse, come sui ceti rustici, si scaricava il peso delle disuguaglianze sociali e del privilegio.
Accanto alle prevalenti attività di trasformazione dei prodotti dell'agricoltura, per soddisfare i bisogni primari della popolazione, occorre segnalare in Correggio la manifattura della seta promossa dal conte Camillo nel 1593 e potenziata sul piano della gestione organizzativa dall'imprenditore cittadino Pietro Rosa verso la metà del XVII secolo nella via del Filatoio.
Vi erano botteghe per la lavorazione della lana e piccole aziende artigianali per la concia delle pelli nella via denominata Conciapelli mentre la tessitura del lino e della canapa era molto diffusa nelle campagne soprattutto nei periodi morti.
I Signori non mancano di istituire nel 1544 il primo Monte di Pietà per sovvenire ad una massa imprecisata di bisognosi o indigenti. Se l'intenzione doveva essere quella di stroncare l'usura praticata dagli ebrei, in realtà risulterebbe che solo in misura piuttosto modesta sarebbero state prestate somme di denaro ai cittadini meno abbienti.
Certamente il Monte di Pietà, cosi come le altre istituzioni di natura caritativo-assistenziale promosse dalle varie Confraternite, palesavano i sintomi delle contraddizioni e delle condizioni precarie in cui navigava la politica di corte che, nel caso correggese, poteva disporre di rendite limitate.

Alla ricerca di una nuova identità

L'incorporazione del Principato nel ducato estense conclude la parabola discendente di una casata e di una presenza che erano divenute sempre più logore e inutili nel quadro delle grandi trasformazioni politiche in atto in Europa. Dalle posizioni di tutto rilievo che nei primi secoli del loro dominio avevano raggiunto fra i Signori della Valle del Po, i da Correggio erano stati costretti a ripiegare in maniera rapida e inesorabile su posizioni sempre più limitate fino a sparire in maniera grottesca e meschina dalla scena politica.
Alla civiltà signorile che in diversi periodi aveva caratterizzato la vita e gli ideali della piccola corte, avevano fatto riscontro le rivalità furibonde e i conflitti di interesse fra i singoli membri della casata, quali componenti prevalenti e costanti, particolarmente nell'ultimo secolo, di un dominio non più in funzione del bene e degl'interessi della città e del suo distretto.
La riflessione storica sulle vicende dello stato non può tuttavia trascurare la considerazione del prezzo pagato dalla comunità di Correggio, cosi come dalle comunità degli altri piccoli stati padani limitrofi, che erano sedi di corte e pertanto luoghi di consolidato e pre ponderante privilegio. E il privilegio ha significato a giudizio di Giovanni Tocci 'Aominio sulla terra e sulle sue risorse attraverso l'irrigidimento delle forme contrattuali, e volle dire contenimento e depressione delle spinte provenienti dal basso, non meno che inasprimento fiscale e, più generalmente, sfruttamento, prevaricazione, abuso".
Sulla fine della signoria correggesca la storiografia e la memorialistica locali non hanno mancato di concedere a Siro, nonostante l'incoerenza e la schizofrenia del suo modo di governare, l'attenuante di essere vittima del proprio tempo, delle mire spagnole e soprattutto di una situazione che era già compromessa prima di lui.
I presunti e sbandierati sentimenti di affetto e devozione dei cittadini verso i loro Signori un qualche fondamento dovevano averlo, se per tutto il Seicento è presente nella città un partito filo-correggesco che tra l'altro appoggia in modo sotterraneo i tentativi degli ultimi da Correggio, Maurizio, Giberto e Camillo, di recuperare il feudo.
Piuttosto, nella delicata fase del trapasso da un padrone all'altro, la conclamata fedeltà a Siro delle famiglie che più erano state coinvolte negli incarichi pubblici si risolve nell'ambiguità e nell'abbraccio finale al duca di Modena. Mentre, per motivi diversi, l'atteggiamento degli ecclesiastici non sarà del tutto favorevole agli Estensi come lo era stato per i da Correggio.
Nella seconda metà del secolo, nonostante si registri un primo avvio di due istituzioni come l'ospedale e il teatro pubblico e vengano pubblicati gli Statuti della città, Correggio stenta a ritrovare un'identità all'interno del ducato di Modena.
La sua facciata e il suo impianto restano ancora quelli arcaici e nostalgicamente autonomisti del Principato, ma sarà soltanto verso la metà del secolo successivo che le élítes intellettuali cittadine riusciranno a tra sformarli e ad adeguarli gradualmente alle esigenze di una società moderna.