Riccardo Finzi | |
Veronica Gambara | |
Correggio nella storia e nei suoi figli, Arca Libreria Editrice, 1984 |
Vedi anche "Veronica Gambara e Ippolito" di O. Rombaldi
Dice Rinaldo Corso che Se il viso di Veronica avesse corrisposto all'altre parti del corpo, Ella era perfettamente bella, et piena di gratia infino all'ultima età. Ma 'l viso, benchè non fosse brutto, non fu però molto delicato giamai, il qual difetto tutta via largamente ricompensò l'eloquenza, che dalla sua bocca assai maggiore che dalla penna, usciva sì dolce e schietta, che ogni persona che ragionava seco di qual si voglia cosa, partivasi con incredibil desiderio di ritornarla a udire. La bontà della sua complessione si conobbe nel poco esercitio, che della persona faceva, et nondimeno si mantenne il più del tempo sana, et visse assai, et sempre lesse e scrisse senza aita d'occhiali. Fuggiva l'aere, et da quello molto si difendeva, Cibi mangiava di buon nutrimento, et non frutti freschi, ne simil vivande. Di niun gioco si dilettava, et sol le piacque lo studio, e 'l ragionar di cose honorate fra gli amici. Sempre moderata et affabile con ogni sesso et conditione et età di persone. Di gravi insieme et piacevoli maniere. A fanciullini de' quali (come dice la Scrittura) è il regno del Cielo, faceva vezzi troppo volentieri. Niente iraconda, o se pure, agevole a placarsi et clementissima nelle proprie ingiurie. Ne' civili sdegni sollecita a procurar le paci, et destra in concluderle. Nell'educar nobilmente, et inviare alla grandezza, et mantenere uniti i figlioli, mirabile, a vero esempio di tutte l'altre Matrone, che reggon Popolo et hanno figlioli. Et più di quelle, che nelle lor case han la discordia, come per morbo bereditario.
Chi le da nota, la riprende d'aver amato et difeso con soverchia affetione gli amici et servidori suoi, d'aver ascoltato chi l'adulava, et d'aver creduto facilmente. Ma non ch'ella intendesse, che i suoi cari errassono confidati nel suo favore, ma errato che havevano, non sapeva abbandonargli, ne del suo creder facilmente era altra cagionese non il misurare dell'animo suo l'anima de gli
altri, et haver ciascun per buono, sì come si sentiva esser ella medesima, conchè però non credeva temerariamente. L'ascoltare l'adulazioni non procedeva da altro in lei, tutta humile, salvo che dalla tenerezza della sua natura. Tutti di fetti che se pur sono in alcun animo, danno indicio di puro et sincero, più tosto che altrimenti, essendo che niuno in questa vita passa senza menda.
Ella nel suo stile più candido et dolce, si come si vede et nella Prosa valse non men che nel Verso, come fan fede alcune sue lettere già stampate fra i vari autori.
In quanto a fisico aspetto, per molti anni venne creduta sua l'immagine che appare in un bel dipinto seicentesco, di proprietà Comunale, esistente nel museo di Correggio. Ma sicure ricerche hanno condotto all'identificazione della sua immagine in un ritratto conservato presso la Casa Gambara di Parma; immagine confermata da altri dipinti e dalla iconografia inserita nelle tavole e Litta riguardanti tal nobile famiglia.
Veronica nacque nel Castello di Pratalboino, feudo della famiglia Gambara da Brescia, il 30 novembre 1485, da Gianfrancesco ed Alda Pio da Carpi.
Sino dalla fanciullezza attese con passione agli studi classici, sotto l'influenza intellettuale del Bembo - principe dei letterati del suo tempo - e, fattasi colta giovane, conobbe personalmente quel dotto nel 1504, stringendo con lui un'amicizia elevatissima.
Nel 1506 Giberto X da Correggio, rimasto vedovo di Violante Pico, la chiedeva in isposa Giberto e Veronica erano cugini, perchè la madre del primo, Agnese Pio, era sorella della madre di Veronica.
Dati i legami di parentela fu necessario chiedere la dispensa papale. Ottenutala, le nozze avvenivano per procura il 6 ottobre 1508 e poco oltre Veronica si stabiliva a Corteggio.
Grande amore nutrì Veronica per lo sposo, come ammaliata dal di lui sguardo, che cantò in varie poesie, come in questo sonetto:
Vero albergo d'amor, occhi lucenti
del frale viver mio fermo ritegno...
ed ancora:
Occhi lucenti e belli,
com'esser può che in un medesmo istante
nascan da voi si nove forme e tante?
Ed in un'altro sonetto:
Dal veder voi, occhi sereni e chiari
nasce un piacer ne l'alma, un gaudio tale
che ogni pena, ogni affanno, ogni gran male
soavi tengo, e chiamo dolci e cari.
Il matrimonio fu allietato dalla piena felicità familiare. Nel 1510 Veronica vedeva la casa in festa per la nascita di Ippolito e, nel 1511, di Girolarno.
Ambedue i figli dovevano illustrare la loro casata: Ippolito nell'armi, e, maggiormente Girolamo nella, diplomazia e nella prelatura.
Benchè siano venuti a mancare a Veronica altri figli, la poetessa era felice accanto al suo sposo, nell'idillica serenità di quella Correggio che così la stessa cantava:
Onorate acque, e voi, liti beati
ove il ciel più tranquillo e più sereno
sparge i suoi doni a tutti altri negati ...
Benchè amante della sua casa e dei tranquilli studi, Veronica è alla corte di Mantova nel 1510, e nel 1515 è con lo sposo a Bologna, per visitare il Pontefice Leone X e Francesco I, Re di Francia.
Alla fine di agosto del 1518 rimane vedova. Affranta per la perdita del marito, ristà per un po' di tempo silenziosa, indi dedica al marito numerose rime, che la dimostrano inconsolabile.
Quel nodo in cui la mia beata sorte per ordine del ciel, legommi e strinse, con grave mio dolor sciolse e discinse
quella crudel che 'l mondo chiama morte.
Ed ancora in altra poesia:
Ed or ch'io mi credea viver felice, e coglier di speranze il dolce frutto,
Passata è la speranza ahimè infelice.
Ma il forte spirito di Veronica vince in lei l'abbattimento. Benchè più non abbandoni le spoglie vedovili e sulla porta della sua stanza faccia scrivere i due versi di Virgilio
Ille meos, primus qui me sibi junxit, amores Abstulit, ille babeat secum, servetque sepulcbro
riprende animo per dedicarsi intera alle cure dei figli, di Correggio, ed ai suoi diletti studi.
Viaggia per affari e per conoscere illustri personaggi. E' a Mantova nel 1521, a Ferrara nel 1524, ed indi a Venezia. Consiglia i suoi figli, li spinge a farsi onore, li aiuta con commendatizie presso il loro zio Uberto, alti prelati e principi.
Verso la fine del 1528 e per vari mesi dei 1529 è a Bologna, ove soggiorna in un appartamento proprio, benchè sotto la protezione del fratello Uberto, ch'era in quel tempo governatore della città.
Ed appunto per l'amore dei figli, ella curò coltivare le più salde amicizie, e a guadagnarsi
la stima dell'imperatore Carlo V, a cui dedicava vari sonetti. Indi stringe ottimi rapporti d'amicizia con i Medici - come appare dalle lettere a Caterina, duchessa d'Orleans e poi Regina di Francia - e col Pontefice Paolo III, a cui pure dedica i suoi versi. Ottimi rapporti tiene pure coll'Aretino, a cui invia vino e frutta.
Già in Bologna aveva raccolto intorno a sè i migliori letterati del suo tempo, quali il Bembo, il Molza, il Cappello, il Mauro ed altri illustri personaggi, sì da trasformare la sua casa in una vera accademia. L'imperatore Carlo V le faceva visita due volte a Correggio, il 23 marzo 1530 e il 9 dicembre 1532, accolto con gran pompa da Veronica e dagli altri Signori da Correggio.
Nel 1531 ospitava alla sua Corte Lodovico Ariosto, a cui il Marchese del Vasto, Capitan Generale dell'Imperatore, accordava un assegno di 100 ducati d'oro il 18 ottobre, con un atto stipulato nel Castello di Correggio.
Amantissima del suo popolo, come altrettanto amata da quello e dai congiunti, i Signori da Correggio, provvedeva a tutto e a tutti con animo virile e con sereno spirito.
Logoratasi la salute cade inferma, e così scrive alla figliastra Costanza, Contessa di Novellara:
La mia indisposizione è stata il non dormire per voler essere più d'altri che mia e quel non dormire ha causata indigestione nello stomaco, e per conseguenza un poco di febbre ... Risana e riprende la sua vita in modo ancora più intenso.
Nel 1549 compie l'ultimo viaggio fuori dalla patria, avviandosi alla Corte di Mantova con la nuora Chiara, per adempiere ad un dovere familiare, o, come dice la stessa Veronica, nè ho potuto fuggire questo vi . aggio, così per ubbidire a quella onorata Principessa tanto mia Signora, come per dare un poco di spasso alla detta mia nuora.
Il 14 agosto dello stesso anno faceva testamento e, dopo breve malattia, moriva il 13 giugno 1550, proprio nel giorno di S. Antonio da Padova, di cui era devotissima.
Il giorno seguente fu sepolta nella chiesa di S. Domenico fuori le mura, accanto allo sposo, in quella chiesa che veniva abbattuta nel 1557 in occasione di guerresche vicende. Il suo cadavere fu recato solennemente nel Tempio con un ramo d'ulivo ed uno di lauro in bocca; e queste frondi furono un degno simbolo significante l'indole pacifica e benigna dell'animo suo, e il sommo valore di lei nella poesia.
Sopra il marmo del sepolcro, Rinaldo Corso compose questa epigrafe:
Gambara sub tumulo jacet boc Veronica,
Princeps Corrigii, solo nomine nota satis
Quam coluit quicumqueberos, quicumque poeta Quam cecinit, lapide boc Gambara contegitur.
Gambara stirps, nomen Veronica, Brixia mater Musa Erato, titulus Corrigium et tumulus.
Traslata la sua salma entro le mura (ove sorge l'attuale chiesa di S. Giuseppe del Convitto Nazionale) nell'anno 1557, si è da tempo perduta la memoria del luogo preciso ove vennero riposte le sue ceneri.
Per illustrare completamente la sua vita occorrerebbero molte pagine ed in esse citare numerosi episodi, nonchè le tante persone con cui la Gambara nutrì l'amicizia. Ma essendo ciò impossibile in questa sintetica monografia, basti ricordare che la Gambara fu amata dalle persone più illustri del suo tempo, fra cui si annoverano, oltre a quelle nominate, il Dolce, il Ridolfi, Vittoria Colonna, il Sannazzaro ed il Varchi, senza parlare di Antonio Allegri e di altri.
Di lei si può dire col Varchi:
Donna che veramente unica al mondo
come suona il leggiadro nome vostro...
e con G. B. Giraldi Cinzio, che agognava seguire le sue orme:
Donna cui pensier basso unqua non colse da l'erto colle ove con ferma mente poggiaste al vero ben sì altieramente, che la difficil via mai non vi tolse ...
Un esame dell'opera di Veronica Gambara come letterata, riesce facile alla critica odierna.
Le sue numerose rime, in gran parte composte sotto forma di sonetti, non si discostano da quell'imitazione petrarchesca che furoreggiò in Italia al tempo della poetessa, particolarmente per la divulgazione che fece il Bembo, di quanto poetò il Cantor di Laura.
Benedetto Croce scrive di lei: Veronica Gambara era un'alta e severa dama, di sani e temperati affetti, di squisita educazione letteraria, e con grande compostezza e decoro letterario non meno che morale, rimava il non molto, e non molto originalmente pensato e sentito che aveva da dire.
Olindo Guerrini, nella prefazione alle rime delle tre poetesse del cinquecento Vittoria Colonna, Veronica Gambara e Gaspara Stampa, scrive invece: La Gambara, delle tre, è forse quella che possiede meglio l'arte . . , Rende con facilità le impressioni esterne e con chiarezza le riflessioni di una poesia piana e melanconica. Le sue migliori rime sono le ottave dove veramente è qualche cosa della limpidezza cristallina dell'Ariosto, qualche alito della freschezza del Poliziano.
Altri critici vogliono che la Musa di Veronica sia fredda e compassata. Invero il verso di lei non è freddo, ma moderato dallo spirito, ed avvinto ad una concezione della vita per nulla esaltante taluni ideali paganeggianti del suo secolo; bensì serena anche quando il cuore è vinto dal dolore.
Per convincersi, si leggano le stanze di Veronica " Sulla caducità dei beni terreni " inviate a Cosimo I, Granduca di Toscana, e se ne avrà una luminosa conferma.
Il pregio della sua opera di letterata, oltre che nelle rime, sta nelle lettere da lei scritte. Ivi sì può meglio gustare l'ambiente del suo tempo, dipinto con grazia, oltre che con lo spirito animatore della Gambara.
Si è voluto accostare a Veronica, come scrittrice, un'altra donna famosa che ha lasciato un'orma profonda nel XVII secolo: Madame de Sevignè.
L'epistolario della Gambara è ricco, per la naturalezza, la serenità, la vivacità ed una certa arguzia, che denotano soprattutto il sano ed allegro temperamento della poetessa. Alcune sue lettere sono pensose, altre veramente profonde; ma nessuna troppo pessimisticamente accorata.
Vi è nella Gambara molto di più di una erudita e petrarcheggiante umanista. Ella possiede il grande segreto della conoscenza dell'unica verità e lo appalesa vivendo nella società paganeggiante del 1500 - in cui dotti, prelati, donne famose ed artisti fanno a gara nella conquista dei piaceri sensuali - pur rimanendone distaccata, per abbandonarsi al mondo francescano in cui Veronica volle sempre vivere, nutrita di serene gioie.
Godere in serenità tutte le bellezze dello studio, della famiglia, della poesia, ma non discostarsi mai dal pensiero di Dio e dai doveri che ogni uomo, nascendo, contrae. Bernardo Tasso, nell' " Amadigi ", così la ricorda: Qual cigno sì canoro e sì gentile lungo 'l Meandro mai, cantò 'l suo fato che la Gambara mia col vago stile, col dotto stil cb'ognor fia più lodato, parer non fesse roco corvo e vile; Correggio il sa, che del suo onore ornato viverà, mentre i fiumi averan onde, augelli il ciel, le selve arbori e fronde ...