Gabriele Fabbrici
Antichi stemmi dei da Correggio: il secolo XIV
Museo in linea, rubrica de "Il Correggio", n. 2/99

A Correggio la memoria della famiglia che resse per sei secoli e più le sorti della città e le tracce visibili di questa presenza si sono conservate abbastanza numerose nonostante le ingiurie del tempo e il tentativo degli uomini, in taluni periodi, di cancellarle (come fecero, ad esempio, gli Estensi dopo l'acquisizione del Principato).
Oltre agli edifici, alle fonti documentarie ed iconografiche che ci parlano di questo importante passato, si possono ammirare anche, sparsi qua e là nella città, alcuni antichi stemmi dei da Correggio che ci consentono di ripercorrere, anche per sommi capi, la loro storia araldica, a partire almeno dal Trecento, dal secolo cioè in cui la Signoria correggesca si stabilizzò definitivamente.
Passeggiando sotto i portici di via Roma, alla fine del percorso coperto, murato sulla parete esterna della chiesa di San Francesco, ci si imbatte in uno stemma marmoreo di Giberto IV (morto dopo il 1257) recante l'arme antica dei da Correggio (scudo con fascia bianca in campo rosso) caratterizzato da un grande elmo e da uno scudo dalla forma assai particolare.
All'interno dell'edificio, che purtroppo i danni provocati dal terremoto del 15 ottobre 1996 rendono attualmente non accessibile, nella Cappella absidale destra (già della Concezione) è murata una lapide in marmo rosso di Verona che ricopriva il sepolcro di Giberto VIII da Correggio (morto nel 1446) in cui lo stemma presenta una quasi totale analogia formale con quello murato sulla parete esterna.
Prima di analizzarne le caratteristiche, non è inutile un breve richiamo all'origine leggendaria dello stemma correggesco.
Un'origine che vede un intervento soprannaturale della Madonna che, in occasione di una battaglia contro i longobardi, fece cingere a Giberto I da Correggio - della famiglia da cui sarebbero poi disegni i Duchi d'Asburgo - una correggia bianca (una cintura portaspada) sull'abito.
Il combattimento, da cui Giberto uscì vittorioso, fu così tremendo che egli ne ebbe tutto l'abito macchiato di sangue, ad eccezione della correggia.
Da qui, sempre secondo la leggenda, lo stemma e il nome stesso della famiglia.
Una bella leggenda, ma pur sempre una leggenda in cui i colori dello stemma, rosso e bianco finiscono però per corrispondere proprio a quelli di Casa d'Asburgo (divenuti, poi, quelli della Repubblica Austriaca).
Ritorniamo agli stemmi di San Francesco.
Seppure di fattura quattrocentesca, entrambi presentano caratteristiche formali che ne rivelano inequivocabilmente matrici e tradizioni più antiche, risalenti al secolo precedente, in cui la derivazione da modelli reali (caratteristica saliente dell'araldica trecentesca) è del tutto palese.
Lo scudo, che rappresentava la parte più interessante dell'armatura in quanto su di esso veniva riprodotto lo stemma del cavaliere che lo imbracciava, ha come modello quello effettivamente utilizzato durante le giostre cavalleresche.
Presenta margini appuntiti e, a sinistra per chi guarda (ma sulla destra per chi lo scudo lo portava in torneo), un singolare incavo, del quale forse non si coglie immediatamente il significato.
Siamo in presenza di un tipico scudo trecentesco, detto a targa o all'inglese, usato, come si è detto, in occasione dei tornei.
E proprio quest'uso particolare giustifica la presenza dell'incavo: esso costituiva una base d'appoggio supplementare per la lancia.
che il cavaliere reggeva con la mano destra e poggiava su una struttura fissa agganciata all'armatura.
In questo modo la forza d'urto della lancia e del cavaliere veniva moltiplicata in misura significativa.
A partire dal Quattrocento e in modo ancor più significativo dal primo Cinquecento in poi, questa forma di scudo venne gradualmente sostituito da un'altra, più moderna, conosciuta appunto come scudo moderno o sannitico o anche francese, a U con angoli inferiori arrotondati e terminante con una punta.
Anche l'elmo è tipico del Trecento. Evoluzione dell'elmo a berretto duecentesco, presenta una compatta struttura d'acciaio, senza parti mobili, appoggiato sulle spalle dell'armatura e con un'esigua apertura orizzontale per consentire al cavaliere, sia nella giostra che in combattimento, una minima visione frontale e laterale.
E' conosciuto come elmo a bigoncia.
Dall'elmo partono quelli che sembrano fogliami frastagliati: si tratta in realtà di pezzi di stoffa ritagliata che cadevano come pennacchi dall'elmo che da un uso pratico finirono con l'assumerne uno decorativo.
In origine, infatti, servivano a proteggere l'elmo e quindi il cavaliere dai raggi del sole; poi, con il passare dei decenni, divennero elementi decorativi che, svolazzando quando il cavaliere si trovava in corsa, gli davano un aspetto di eleganza e leggerezza, a dispetto dell'imponenza del complesso cavallo-cavaliere lanciato al galoppo.
Nella parte superiore dell'elmo troviamo una corona e un busto di cane.
Il primo elemento, cioè la corona, presenta alcuni interessanti problemi araldici.
Fatta giustizia di quanto scrivono le Antichità Correggesche a proposito dell'origine di questa corona, che cioè sia l'arma regale posta sull'elmo da Giberto IV dopo la sua vittoria sull'armata dell'imperatore Federico II di Svevia nel 1247 (la corona reale, o più correttamente, imperiale è del tutto differente e non la si può in alcun caso confondere con questa), la sua foggia non corrisponde, in ogni caso, al modello di corona cui i da Correggio avrebbero potuto legittimamente rifarsi, cioè quella di Conti dopo il 1452 (cerchio d'oro ornato da sedici perle, di cui nove visibili).
Piuttosto essa si presenta come una variante impropria di quella da Marchese, titolo peraltro mai goduto dalla dinastia correggesca.
Mentre, infatti, sono analoghe le quattro foglie d'acanto, di cui tre visibili, ornate al centro ad pietre preziose, differiscono sostanzialmente i gruppi di perle (tre, di cui visibili) che le alternano: nelle corone normali le perle sono a gruppi piramidali di tre, mentre qui sono singole e sostenute da punte.
Ultimo elemento il busto di cane: si tratta di un levriere, simbolo araldico di animo pronto, vivace e costante nel seguire un'impresa (quindi, nel concreto, la riaffermazione della vigoria e della forza della famiglia), in genere - e gli stemmi correggesi seguono questa norma - raffigurato con collare da caccia e a fauci spalancate, con la lingua sporgente.
Per approfondire
L. Caratti di Valfrei, Araldica, Milano 1996;
R. Finzi, Correggio nella storia e nei suoi figli, Reggio Emilia 1968 (rist. Correggio 1980);
A. Ghidini - V. Pratissoli, Correggio, i luoghi e le immagini, Bologna 1994;
V. Mioni - A. Lusuardi, La Zecca di Correggio. Catalogo delle monete correggesi, Modena 1986; C. Neubecker, Araldica, Milano 1980.