Odoardo Rombaldi
Contro corrente: Claudia Rangoni
Correggio, città e principato, Banca Popolare di Modena, 1979

Ad una evocazione sia pur rapida della corte dei da Correggio, così ricca, per nascite o per acquisizioni, di personalità originali e talora geniali, non può mancare il ricordo di una donna dotata di senno quasi virile e di animo appassionato: Claudia Rangone, moglie di Giberto di Manfredo. Il Tiraboschi le dedicò un ritratto nella Biblioteca Modenese (1) e ne riprodusse alcune lettere tra le molte decine che la Biblioteca Estense in Modena conserva (2). I biografi di Claudia hanno considerato il fallimento del matrimonio suo, momento centrale, e in ciò non si sono ingannati, perchè lo vedremo - tale fu anche per lei.
Tra le donne dei da Correggio, nessuna, dopo Veronica Gambara, fu più celebrata e, cosa che non avvenne di questa, più vituperata per l'abbandono del marito e, dopo, per la condotta o altre colpe attribuitele: l'amore per il cardinal Gerolamo ed altro più infamante (3).
Giberto, che la definì "donna terribile - cervello indomito" (1566, 14 dicembre), era un soldato affetto precocemente da gotta "accompagnata anche da qualche altra mala compagnia". Dopo la nascita della figlia Lucrezia, che andrà monaca, si disse che per dieci anni Giberto non assolvesse al debito maritale; certo l'annullamento del matrimonio (1567) fu concesso e giustificato con la lontana parentela tra i coniugi.
L'insoddisfazione sentimentale di Claudia è documentata subito dopo il '50 (ella era nata poco dopo il 1530): "se io fossi donna così trista come son tenuta" (4); l'insoddisfazione genera un'irrequietezza che si manifesta nel bisogno di comunicare, di trovar l'appoggio di un uomo forte. La maggior parte delle lettere di Claudia è diretta ai conti di Novellara: Francesco, Alfonso e alla moglie di questi, Vittoria da Capua. Per Francesco Claudia ha un trasporto irresistibile; per lui ella è "una persona che amate tanto e dalla quale siete sicuro di esser abbondantemente ricambiato" (1560, 27 gennaio); poichè il conte è sordo o pigro ai suoi inviti, si porta lei stessa a Novellara: "Capi di tavola erano la Signora (Vittoria) e la Signora Claudia et il Conte Alfonso; et Ricciolo et Lelio (Orsi) cum la penna in mano et la carta fecero le figure, et così fecero la figura sopra a più cose in tanto che io li sono stato a vedere, et hanno visto chi ha da morir prima de mariti et de le mogliere" (1562, 26 maggio). Questo passatempo è ripreso pochi giorni dopo: "la Signora Claudia et il Signor Ricciolo et Lelio attendevano alla sua astrologia ci a far delle figure colla penna" (1562, 9 giugno). Il gioco rivela un'ansia dissimulata in altri modi, con fughe e nuove distrazioni: "Et venne volontade alli Signori et alla Signora Claudia ancora di andare per il mondo et montarono in cocchio, nell'altro la Fulvia et le dame de la Signora Claudia, et andarono a Correggio, alla Fera di S. Quirino et li smontarono et merendarono tutti a buona insalata et bone fritade et formaggio et passarono per la Fera non troppo bella per la pioggia"; e forse nel teatro: "la nostra (sic) è in essere, ci già finita la scena et il Rizzolo che l'ha veduta provare la giudica degna delle orecchie della Signora Claudia" (1565, 26 febbraio) (5).
Ma il vero dramma era scoppiato nell'animo di Claudia fin dal 2 marzo 1561, quando aveva confidato alla Contessa di Novellara queste pene (6):
"Con molta ragione giudica V.S. il mio stato degno di compassione e d'aiuto, perchè veramente io non so in qual altra parte del mondo o del Purgatorio io non volessi essere più tosto che a Correggio, sottoposta ogni hora a mille affronti et a mille pericoli et a infinito biasmo, senza alcuna speranza nè d'honore, nè di utile, nè di quiete. lo vi confesso, Signora mia, che, se non fosse che pur voglio sperare che Dio mi habia una volta a consolare et che il mondo non debba eternamente star in questo stato, non so ciò che io mi facesse, perchè infatti questa è una vita per me troppo misera, nè io conosco in me fortezza da poterla lungamente tollerare et tanto più che, come dice V.S., temo il male e mi spaventa il peggio; mi vari per la mente certi pensieri insidiosi che non mi lasciano quetare, pensando io che saria di me se della prigionia di Caprì nascessero di quei scandalli che io temo infinitamente; però il miglior aiuto che possa ricever da V. S. et di che io la prego, scongiuro con tutto il core l'operare col Cardinale caldamente e farmi libera di questa miseria, in modo che torni reputatione et satisfatione a tutte le parti; che lui, secondo me per molti rispetti lo deve fare, altrimenti son risoluta, con manco reputatione dell'universalità et con minor satisfatione mia, levarmi da qui, acquetati che si siano questi primi impeti, a ciò non paia che io non voglia star a parte col pericolo e del marito e degli amici; poi me ne andrò ove mi guidarà la mia mala fortuna, che così non voglio viver a modo alcuno; un monasterio di monache finalmente non mi pò mancare, perchè qui non si pò vivere se non da vili o da tristi.
Un altro aiuto desideraria da V.S., ma questo non lo voglio se non con intiero comodo suo, che si contentasse uno di questi giorni a cenar meco perchè li direi alcune cose che non mi par bene il scriverle, sopra le quali pigliarei resolutione secondo il consiglio suo; et se questa è poca discretione a questi tempi, lo perdoni a chi causa questa necessità; et ad un'altra cosa, che non voglio dire per non parere d'usar se non modi cerimosiosi ma me lo facia sapere il giorno inanzi per un rispetto che poi le dirò. Queste lettere che io scrivo a Novellara su simili soggetti sariano sempre comuni tra V.S. e il conte Francesco, il quale, per una lettera che hogi li ho scritto havrà visto et fatto vedere a lei l'ordine di questi nostri Signori Anziani hanno pigliato per sicurezza di tutte le parti. lo farò fine basando le mani a V. S. e pregandola che preghi Dio e le genti del mondo che mi liberino da questa croce, poichè senza questa ne ho tante altre che dovriano bastare se non a miei peccati, almeno alla mia cuniplessione.
Di Correggio, 2 maggio 1561

Da reticenze e promesse confidenze, che generano mistero, emerge la volontà della donna di rompere il cerchio che la stinge e di sfidare il giudizio dei parenti e del mondo.
Claudia infatti non è in rotta col marito ma con l'ambiente, tanto diverso da quello in cui si era formata o che aveva ella stessa costruito con la sua fervida immaginazione (7); che Giberto esercitasse un controllo severo su la moglie o tollerasse modi rudi di altri verso di lei rientra nella norma della famiglia patriarcale. Lo deduciamo da quanto Claudia scriveva negli stessi giorni al Conte Francesco Gonzaga:
"Dio vi protegga per sua bontà, che a me par d'esser nel Purgatorio e veramente, se io pensassi d'aver a vivere lungamente a questo modo, sarei sforzata di pigliare qualche partito a fatti miei, e credo che finalmente bisognerà che io mi risolva poi, ma per adesso,
poichè io ci sono condutta dalla mia mala ventura, voglio aver pazienza e stare a parte di questa imminente ruina, finchè si vegga ciò che parturient montes, perchè infatti questo paese non può esser abitato volentieri da chi è donna e cristiana, perchè bisogna ogni ora tollerare mille indegnità e mandarle giù col cucchiario della rabbia, overo metter mano al sangue e a mille altre cose lontanissime dalla condizione e professione inia".
Insofferenza, che la confermava nel suo proposito di fuga:
"Vedermi poi uscir di qui, dove io ci fui condotta da così mala fortuna e dove vivo con tanta discontentezza e dove io tollero ogni ora mille indegnità, e condurmi nella più bella parte del mondo, questo è quello che vorrei e di che ve ne prego con tutto il cuore Conte mio caro, che tutto il resto è burla.
Di qui la fuga, determinata anche dalla straordinaria risonanza che la disobbedienza alle leggi maritali aveva suscitato. Non si poteva violare impunemente, specie in una famiglia di rango comitale, la lunga tradizione di sottomissione e di rispetto delle regole. La vita disordinata di Claudia, la sua dimora ora a Bagnolo, ora a Novellara, i precipitosi ritorni alle ore più impensate indispettirono il conte Camillo, che un bel giorno chiuse le porte di Correggio a Claudia e armò le artiglierie contro il suo seguito. La cosa fece scandalo e l'eco arrivò fino a Trento, donde, il 28 settembre 1562, il vescovo di Reggio, G.B. Grossi, intrinseco dei Gonzaga di Novellara, scriveva:
"Heri, per uno che viene da Mantova se intese che il Signor Camillo haveva serrato fuori della terra la Signora Claudia sua cognata, che era venuta a Novellara, et fatto levar ponti e metter artiglieria sopra la muraglia, mostrando non ci voler dentro altri che lui".
Da Roma, ove ormai ella vive, difende dal fratello Fulvio il suo mondo, il diritto a viver la sua vita:
"Bene mi fa V.S. non poco torto continuando nella sua antica opinione di reputarmi tanto superba ch'io non sapessi accomodarmi a vivere in un castello come Spilimberto non solo in questa età ma quando ancho ero nel fiore della mia gioventù, sempre che fosse stato con le satisfationi solite di marito e figli che tengono l'altre donne volentieri in simil loco, anzi, in un bosco bisognando; ma chi è privo di questo, come posso dir io d'esserne stata sempre, non è dubbio che in me non fa da esser reputato a vitio o superbia il viver più volentieri in loco comodo di tutte le cose che in un loco solitario quando, come ho detto, la necessità non mi astringe. (...) Non ho altro a questo mondo che una vigna sola, la quale, considerato un anno per l'altro mi stanno 4 denari a 15 per cento; ma perchè è di maggior occupatione di quello ch'io pensavo, voglio quest'altro anno procurar d'uscirne per viver questi pochi anni che mi avanzano con meno".


1 TIRABOSCHI, Biblioteca Modenese, I V. p. 260 e ss.
2 Biblioteca Estense, Modena, Manoscritti Campori: Claudia Rangone
3 P. LITTA, Famiglie celebri Italiane, 1 da Correggio, t. 317; R. FINZI, Correggio, cit. p. 73 e ss.
4 Tutti i passi sono tratti dalle lettere di Claudia, in Ms. Campori, cit.
5 Che Fulvia fosse intendente di musica risulta da questa informazione: "La Signora Claudia se mise poi a sonar l'istrumentino della Signora e li cantava dentro". (1563). Ella stessa faceva teatro a casa sua. "La desidero questa sera a una commedia di Zanni, che si farà qui in casa, che credo che (non) sarà la più graziosa del mondo, sarà forse manco male di quella che farete voi con Giovanni Antonio e col poveretto del Bacchiocco", Claudia alla Contessa di Novellara, 1563, 11 febbraio.
6 Questa stupenda lettera, sfuggita ai biografi di Claudia, è nell'Autografoteca Campori, in Biblioteca Estense, Modena.
7 Questo mondo d'immaginazione comprende anche le suggestioni provenienti dalla poesia del Tasso: "Il Tasso mi manda questo sonetto senza scrivere, per non dar fatica di rispondere" (1565, 11 ottobre). Nel 1564 il Poeta era stato presso i Rangoni a Castelvetro, poi a Correggio, accoltovi a grande onore dalla Signora Claudia Rangoni, che ricorda nel Dialogo Il Gonzaga secondo overo del giuoco: "questa lode non conviene a me, signor Giulio Cesare, ma converrebbe ella senza fallo a la Signora Claudia Rangona, a la Signora Barbara Sanseverina, a la Signora Fulvia da Correggio ... "