Italo Zannier
Gildaldo Bassi, fotografo viaggiante
Gildaldo Bassi Fotografo (AGE, Reggio Emilia, 1994)

Da dove provengono i fotografi da che paese da che scuola da che bottega ... ?
il loro mestiere (che poi si chiamerà arte e cosivvia) si è sviluppato con straordinaria rapidità come scatenato da un virus che produce immagini, e con una dovizia che finalmente consentì a tutti di poterne godere; immagini oltretutto "fedeli", come mai altre lo erano state.
La fotografia, è noto - subito dopo l'invenzione e mentre avvengono le prime entusiasmanti esperienze nei gabinetti scientifici - si diffuse ovunque fino nei villaggi per l'iniziativa sollecitata da speranze di un rapido successo commerciale, di una folla crescente di fotografi ambulanti: "magnifici randagi" li ha chiamati Gilardi, ma i nomi di alcuni sono rimasti impressi negli "Avvisi", ospitati nelle Gazzette locali, che ne annunciavano l'arrivo e la breve permanenza in una ospitale Locanda in piazza.

"Professori di dagherrotipia" si definivano i "randagi" Raffaele Sgarzi o il più anonimo Perraud; quest'ultimo di passaggio a Roma nel maggio 1846, in via de Pontefici 50 "primo piano in fondo al corridore a mano sinistra presso Corea ossia Mausoleo di Augusto" 1 era in grado come altri di eseguire un "ritratto al Daguerreotype in pochi secondi". Un dagherrotipo allora costava "scudo uno" ma ci si doveva affrettare perché l'"artista" sarebbe partito "irrevocabilmente da questa capitale alli 24 di giugno prossimo"; e amen.

Il Perraud, in particolare - tra i cento fotografi itineranti avventurieri piuttosto che artisti provenienti in Italia dalla Francia (Porraz a Bologna; Beguin a Verona ... ) o dalle Germanie (Brosy, Bosch, Fleicher Picher, a Trento, Verona, Trieste, Ferrara, ecc.) o dall'Inghilterra, come il misterioso Lewis che troviamo a destra e a manca soprattutto nel nostro settentrione -, Perraud dicevo aveva preparato anche un suo "Liquore", "il più perfetto, molto più costante di quelli conosciuti", e lo vendeva a "scudi 2 alla bottiglia"; poca cosa, se, come il fotografo-alchimista affermava, "con essa servendosene ogni giorno, è sufficiente per fare cinquemila ritratti".

Ecco il "professor Perraud" che dà consigli, ed è disposto però, come Ferdinand Brosy ed altri a insegnare il magico promettente mestiere, che derivava dall'"invenzione del secolo" la fotografia con cui si era avviata l'Era dell'iconismo nella quale più o meno felicemente viviamo; Perraud, inoltre, vendeva "macchine di Daguereotype con tutti gli accessori a prezzi
"discretissimi", ed insegnava la maniera di servirsene (2) come Brosy, che a sua volta invitava "chi amasse intraprendere quest'arte ( ... ) a ricevere dal medesimo delle lezioni, nonché acquistare macchine e apparecchi, come pure le sostanze necessarie per eseguire da sé i ritratti..." (3)
Insomma altrettanti pionieristici workshop; una grande "università ambulante" della fotografia, alla quale molti tra i nostri fotografi del secolo scorso si erano iscritti, pagando una misera tassa, ma coinvolgendosi nel "mestiere" con grande passione e spesso con successo e ambizioni artistiche (quelle ancora ingenue del "pittore-fotografo") specialmente quando dopo i primi approcci tecnologici, si avviò l'epoca degli atelier, più o meno lussuosi che divennero nuovi luoghi d'incontro, tra il salotto e la bottega del barbiere, entrambe pettegoli e oziosi; chiacchiere, quindi tra un ritratto e l'altro, come tra il taglio della barba e quello delle basette.
Il fotografo, comunque, definisce subito anche il suo look: capelli lunghi, gran fiocco nero per cravatta, un basco come copricapo e una palandrana scura, per il laboratorio; i baffi li portavano tutti.

Se negli Istituti scientifici delle Università, tra i primi a "insegnare" la fotografia erano stati il Puliti a Firenze lo Zantedeschi a Padova, i Jest a Torino il Chimenti a Roma, nel privato era stato Pietro Semplicini ad attivare a Firenze verso il 1850 una Società Fotografica Toscana, dove si allevarono vari appassionati della nuova arte, tra i quali pare, lo stesso Leopoldo Alinari.
Alcuni religiosi, comunque già qualche anno prima (1847) credettero utile addestrare i missionari alla fotografia e diedero alle stampe un manuale del padre gesuita, chimicofarmacista, Pietro Antonacci, dove si spiegavano brevemente le "più ovvie e utili operazioni fisico chimiche ed industriali per comodo delle missioni straniere".
L'intraprendente Antonio Montagna invece, affrontò concretamente il problema dell'insegnamento della fotografia dopo il 1870 addirittura in un paesino com'era allora Mesagne in provincia di Brindisi dove il Montagna, benestante locale, aveva fondato una strepitosa "Rivista Fotografica Universale" la seconda pubblicazione specializzata in ordine di tempo, dopo "La Camera Oscura" di Ottavio Baratti avviata a Milano nel 1863.
Per se stesse queste riviste erano una "scuola" ospitando soprattutto articoli tecnici perlopiù tradotti da pubblicazioni straniere, ma il Montagna creò proprio un "Istituto Fotografico per l'insegnamento teorico-pratico di tutti ì sistemi conosciuti di Fotografia"- il corso costava enormemente cinquecento lire, durava un anno ma comprendeva i prodotti chimici per il laboratorio, ed era aperto soltanto a trenta allievi.

Gildaldo Bassi non frequentò questo Corso né altri che si sappia eppure fu in grado di aprire a Correggio il primo importante atelier sul finire degli anni Settanta del secolo scorso come testimonia una delibera della Giunta Comunale con cui si acquistarono trenta vedute al prezzo globale di lire 37,50.
Ma dove imparò allora il Bassi così bene la fotografia, da farne il suo mestiere a poco più di vent'anni dopo una giovinezza turbolenta, perlomeno dal punto di vista politico, che lo trova tra l'altro coinvolto a Correggio nelle prime lotte operaie? La sua "scuola" fu probabilmente un'esperienza americana, durante il periodo che lo vide transfuga nell'America del Sud dopo gli arresti del 1873 come sovversivo a Correggio; è Oltreoceano che Bassi dopo i vari ma provvisori mestieri praticati a Correggio da emigrante con vocazione intellettuale si avvicina alla fotografia "nella quale si distinse e in seguito - come suggerisce Spartacus, un cronista del giornale "Reggio Democratica" in un articolo che lo commemora soprattutto come patriota e socialista - al suo ritorno in patria, fu uno dei primi a introdurre in Italia il sistema di lavorazione al citrato.

La fotografia a parte la nuova tecnica "al citrato" (stampe al citrato di ferro e nero fumo) trovò in Bassi un "terreno" favorevole proprio perché questo personaggio aveva in sé straordinari stimoli culturali anomali e comunque singolari nella radicata cultura contadina locale del suo tempo- la cronistoria della sua adolescenza, vissuta anche tra gli estremismi anarchici, lo trova in prima fila nelle attività promozionali socialiste, come l'istituzione delle prime Società Operaie in Emilia e i Congressi politici e gli amici progressisti, tra i quali Andrea Costa; anni di lotte politiche e sociali ancora romantiche e che richiedevano spirito generoso e aperto alla modernità.
La fotografia era (ed è) modernità.

Supponiamo il povero emigrante Gildaldo Bassi ("vinti ani, bel come un ciavál...", l'avrebbe definito Pasolini) alle prese con la vita nelle Americhe dopo un estenuante viaggio in nave a cercar fortuna come tutti.
Non sappiamo chi il Bassi incontrò) ma siamo al corrente che il fascino della fotografia aveva già attratto altri, come una sirena basti pensare a "emigranti" ante litteram, come i fratelli Beato che incontrarono a Malta l'incisore-fotografo james Robertson e a loro volta divennero fotografi, oltretutto lasciando una traccia formidabile nella storia del XIX secolo. Gildaldo Bassi risulterà più modesto, ma egualmente attento al suo tempo al suo territorio ai personaggi del suo ambiente che egli ha sistematicamente raffigurato in immagini accattivanti spesso testimonianti sempre.

Ma ritorniamo al suo lavoro di fotografo; pare che Gildaldo abbia iniziato a lavorare in questo settore com'era ancora nel Costume di provincia da fotografo "viaggiante", ossia itinerante quindi anche Bassi fu un "magnifico randagio" passando di villaggio in villaggio di sagra in sagra di casolare in casolare a far ritratti.
Immagini spesso cimiteriali come la fotografia sa esserlo particolarmente in molte occasioni, soprattutto quelle celebrative e programmaticamente rituali.
Il magnifico randagio scrive ancora Gilardi - pedalando per i campi arriva alla cascina e offre i suoi servizi ( ... per lui la famiglia contadina indossa l'abito della festa e posa dove la luce è migliore. Del ritratto meccanico conta ancora solo la sagoma della figura e la sua pura essenziale ma inconfondibile somiglianza..."; Bassi non pedalava, ma possedeva addirittura un carro-laboratorio trainato da un paio di cavalli pubblicizzato sul fianco con una gran scritta: Fotografia viaggiante.
La "carriola" dei primi "itineranti" (in Italia ne è rimasta soltanto una purtroppo "sezionata" per farne scioccamente vedere l'interno, è conservata al Museo del Cinema di Torino, collezionata in tempo utile dall'indimenticabile Maria Adriana Prolo) si era nel frattempo aggiornata fino a divenire, com'è oggi una limousíne, magari soltanto in occasione di nozze importanti dove il fotografo novello giullare tiene banco tra gli invitati con un appariscente flash e l'ultimo modello d'apparecchio elettronico-computerizzato; tante piccole ma inquietanti luci rosse' che si accendono e spengono come stelle fantascientifiche, a comando. Danno tanta allegria pare e comunque la certezza che si tratta di una festa; il rito è compiuto.

D'altronde come ha scritto Pierre Bourdieu la fotografia delle grandi cerimonie è possibile in quanto - e solo per questo fissa delle condotte socialmente approvate e socialmente regolate cioè già solennizzate. ( ... ) La cerimonia può essere fotografata perché realizza l'immagine che il gruppo intende offrire di se stesso in quanto gruppo"7.
Anche Gildaldo Bassi fotografa inevitabilmente (inesorabilmente?) i "gruppi": scolaresche bande musicali celebrazioni con le autorità, come l'inaugurazione del monumento di Vincenzo Vela all'Allegri in Piazza grande. Poi si formano spontaneamente quasi per incanto altri gruppi, lungo le strade o nelle piazze, mentre il fotografo si prepara allo scatto en pose della città; oltre che curiosità sembra che la gente in posa offra un suo saluto allo spettatore e il desiderio più o meno inconscio di essere "immortalata" in un'immagine come oggi davanti a una telecamera ma a quel tempo con più modestia, senza il braccio alzato salutare anche perché l'immobilità era tecnicamente d'obbligo; Fermi! Clic! Grazie!
Quella di Gildaldo Bassi può essere inserita in un grande capitolo sulla fotografia naif (ma esiste questo genere?), che comprende fotografi come Lusvardi o Farini o Sevardi, i quell'Emilia ma in effetti anche come i Sorgato emiliani o gli Orlandini, che gestivano gli atelier più signorili.
Ma per questa fotografia - come sottolinea Quintavalle in un fondamentale saggio s quest'Italia nel cassetto" ossia nel grande album iconografico che la fotografia "povera" h consentito di comporre durante la sua centenaria vita - "presto o tardi nella sociologi d'accatto, prevarrà la tesi che la fotografia di studio diversamente da quella di "artista", arte "popolare" e che quindi in questa porta laterale può rientrare nella casa dell'arte cioè nella considerazione ufficiale. . . " 8.

Così oggi fortunatamente però, per Gildaldo Bassi riemerso non soltanto come pioniere del socialismo e dell'anarchismo, ma come fotografo un essere anfibio che solo di recente è stato acquisito alla storia con dignità anche di artista sebbene Artista il Bassi non sia stato nonostante l'attenta e rigorosa lettura del suo ambiente; piazza dopo piazza, strada dopo strada e palazzi, chiese, monumenti, arredi opere d'arte infine anche il cimitero; e vecchi bambini, ragazze in fiore; un catalogo straordinario da conservare come memoria storica ma anche come testimonianza di una intelligenza fotografica, che Gildaldo Bassi aveva avuto la ventura di scoprire in sé nelle lontane e promettenti Americhe, dove la modernità era stata forse più precoce che altrove, meno inibita dall'archeologia e dall'aulica arte della tradizione.
Nella storia della fotografia italiana d'atelier fin de siécle e primo novecento, Gildaldo Bassi va inserito come un suggestivo stereotipo uno tra cento altri, che erano disposti a "tutto" "fa qualsiasi lavoro in fotografia" precisava Gildaldo Bassi nel portone d'ingresso del suo laboratorio), con quest'arte nuova, in grado oltretutto di riscattare il vecchio faticoso e ingrato artigianato, e di offrire nel contempo sorprendenti ipotesi intellettuali affinando lo "sguardo" sulla realtà, perlomeno le scelte d'inquadratura, se non sempre quella dei soggetti, imposti da una convenzionale ma inevitabile committenza borghese, che intendeva soprattutto lasciare una traccia lusinghiera e comunque dignitosa di sé, come quel misterioso marchingegno della fotografia suggerita da lontani maghi sembrava garantire, perlomeno come perenne, cimiteriale souvenir.


1. Cfr., fac-simile di un foglio volante, raccolto nella cartella-rivista Imago 11", Bassoli, Milano 1967.
2. Ibidem.
3. Cfr. I. Zannier, Storia della fotografia italiana, Laterza, Bari 1986, p. 15.
4. Cfr. "Rivista Fotografica Universale", VI, 1-12, Mesagne, die. 1876, p. 1, Avviso pubblicitario, ora in I. Zannier, Leggere la Fotografia, NIS, Roma 1993, p. 193.
5. Cfr. "Reggio Democratica", Reggio Emilia, 17 agosto 1947.
6. A. Gilardi, Il ritratto nella fotografia delle origini in Italia, in AA.VV., Segni di luce (a cura di I. Zannier), Longo, Ravenna 1991, p. 122.
7. P. Bourdieu, La Fotografia, Guaraldi, Rimini 1972, p. 61.
8. A. C. Quintavalle, Il commercio del senso, in AA.VV., L'Italia nel cassetto, 1859-1945, Grafis, Bologna 1978, p. 24.