Odoardo Rombaldi |
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Azzo e il Petrarca | |
Correggio, città e principato, Banca Popolare di Modena, 1979 |
Vedi anche "Azzo II" di R. Finzi
Giberto fu efficacemente coadiuvato nel suo governo dal fratello Matteo. Questi tenne Castelnovo, Campegine e Casalofia. Ma l'eredità politica di Giberto fu assunta dai figli suoi Azzo, Simone e Guido, che tentarono di riprendere il potere in Parma e si batterono animosamente contro ogni ostacolo. Nel 1326 combatterono le soldatesche mantovane ed estensi a sud del Po, tra Guastalla e Brescello; di qui, attraversata la Tagliata, conquistarono Luzzara, la Zara e Borgoforte; occuparono le isole di Suzara e di S. Benedetto Po e, tranne Reggiolo, si impadronirono di tutto il territorio a sud del Po. Di esso furono investiti dal legato papale pleno iure, in perpetuo; ma, l'anno dopo, non potendo resistere all'attacco di Passerino, rinunciavano, in mano del legato, alle conquiste effettuate. Ma nel 1337 Guido otterrà l'investitura di Brescello e il fratello Azzo, Colorno, e, più tardi, il castellaccio di Campagnola (1352).
Dei figli di Giberto: Simone, Guido, Azzo e Giovanni, Azzo era quello destinato a sicura fama. Al suo destino presiedette la felice congiunzione della politica e delle lettere, inaugurale ed emblematica per alcuni esponenti della sua casa. L'amicizia del più grande poeta del suo tempo lo ha avvolto di un alone magico che la critica storica a noi più vicina non ha dissipato. L'Affò, definendo "Azzo il maggior dei briganti dell'età sua", aggiungeva subito dopo: "i grandi vizi di Azzo paiono scemarsi ogni volta che si riguarda al grande amore portato al Petrarca" (1). In effetti, il politico non fu migliore nè peggiore dei suoi pari, meno fortunato di alcuni ma esaltato su tutti dal favore del poeta. Le ragioni dell'idealizzazione del personaggio ci sono in parte celate, e sono forse più umane che politiche, sebbene ispirate ad un ideale di convivenza civile.
L'ascesa di Azzo incomincia dal momento in cui il nipote Mastino della Scala si fa signore di Parma (1335); inviato ad Avignone per ottenere la sanzione del Papa, è aiutato in tal pratica dalla mediazione del Petrarca. Tra il poeta e l'uomo politico nasce così un'amicizia che gli eventi successivi rinsalderanno. All'inizio del 1340 i da Correggio si preparano a strappare Parma a Mastino. Azzo si rimette nel solco della politica guelfa, e si ripresenta al Papa in Avignone, donde, col poeta, s'incammina alla volta di Napoli; sono insieme nel viaggio da Napoli a Roma. Da qui Azzo raggiunge Parma e il 21-22 maggio, coi fratelli, ribella la città a Mastino; il 23 sopraggiunge il Petrarca; frutto della recuperata libertà sarà la canzone: Quel c'ha nostra natura, in cui celebra la legittima rivendicazione delle libertà comunali dall'oppressione dei tirarnni domestici ed auspica la riconciliazione dei diritti di chi comanda con quelli di chi obbedisce:
Cor Regio fu, sì come sona il nome,
quel che venne sicuro a l'alta impresa
per mar, per terra, e per poggi, e per piani;
e là, ond'era più erta, e più contesa,
la strada, a l'importune nostre some
corse e soccorse con affetti umani
quel magnanimo; e poi con le sue mani,
pietose a buoni et a nemici invitte,
ogni incarco da gli omeri ne tolse,
e soave raccolse
insieme quelle sparse genti afflitte
a le quali interditte
le paterne lor leggi eran per forza;
le quali a scorza a scorza
consunte avea l'insaziabil fame
de' can, che fan le pecore lor grame.
A Parma il poeta soggiorna dal 22-23 maggio 1341 al maggio dei '42 e, successivamente, dalla fine del dicembre 1343 al febbraio del 1345. Cade in questi anni il soggiorno in Selvapiana e la composizione del poema Africa.
L'inizio del governo di Azzo fu buono ed è possibile che nell'amico il Petrarca vedesse incarnato l'ideale della saggezza politica; in effetti, la sicurezza e la pace furono distrutte dal partito ghibellino, tradizionale nemico dei da Correggio: Azzo, venendo meno alla promessa fatta nel 1341, di cedere la città ai Visconti, la consegnava ad Obizzo d'Este, che l'acquistò per 60 mila fiorini (novembre 1344). L'infedeltà alla politica paterna, antiestense, non portò fortuna ad Azzo; Obizzo, ostacolato nel possesso della città, dopo due anni la vendeva al Visconti. Questa cessione chiudeva un periodo assai agitato, in cui il poeta maturò la grande canzone All'Italia. Ad Azzo, passato in pochi anni dalla buona alla cattiva fortuna, il Petrarca dedicherà il De remediis utriusque fortunae, il cui poemio, con la sua calda eloquenza, è il tributo più commosso allo sfortunato amico, dal Poeta idealizzato ancora una volta.
Il Petrarca giustificherà la fedeltà all'amico e ai da Correggio cosi:
"Difesi una causa che, se l'amor non m'inganna, giusta mi parve, e se fu ingiusta, dall'amore acciecato, tale non la conobbi; difesi la causa di una famiglia a me diletta e carissima, il cui patrocinio in quei luoghi mi aveva primamente guidato, per amore di cui, se pur v'è terra che all'uomo non sia patria, io, come vedi, la patria d'altri ho fatto mia" (2).
Che il Poeta non si illudesse può esser prova l'amore alla cultura trasmesso da Azzo al figlio Giberto; le lettere che questi manda allo zio Francesco Gonzaga di Mantova chiedono l'invio di codici; nel 1377, restituendo la Naturalis Historia di Plinio chiede il De mirabilibus Mundi di Solino; lo rimanda (col titolo di De divisione Mundi) e domanda il Troiano (forse la Ephemeris belli troiani di Lucio Settimio - 27 luglio); nel rimandare il Troiano chiede di nuovo la Naturafis Historia (20 settembre), che restituisce il 17 febbraio 1378 in cambio di altra opera. Nel 1380 restituisce il De asino aureo di Apuleio (8 maggio), nell'82 un Valerio Massimo, ma trattiene le Tragedie di Seneca: "retinui autem Tragedias Senece, quas etiam cito remittam" (26 aprile) (3).
Il rapporto tra Giberto e la madre Tommasina risulta da una lettera inviata da costei al fratello Francesco; ne diamo il testo non solo per il giudizio contrastante che reca su Giberto, ma anche perchè, oltre che sfogo di una madre che si sente trascurata, è prova del contributo da lei dato alla famiglia negli anni di assenza del marito Azzo:
Magnifico segnor, fradel me carissimo. El me besogna scriverve cosa, la qual e io no credi ma' che dovesse besognar che ve scrivesse e la qual e crezo che vu no aspetasti ma' d'oldire. De que e ve fazo a savere ch'el l'è mo sette anni che sun in stà de vedoità et per questo tempo e liò retto e governà me fioli e i fatti sò ben e sì ben che no crezo che loro nì altri possan dire el contrario, anchora gò rnaridà cinque serore dentro moderna e bastarde ci oge fatto murare le castelle sue e oge fatto ogn'avanzo che se possa far per me, e de que non aven ma' nì pensero nì fadiga. El padre so mi lassò ben che dovesse rezere e governare, de que mo de novo, Ghiberto, sia per so pocho senno, sia per mal conscio, che l'à abuì da cative persone, s'è movù straffiamente contra de me et ame toletto le chiave e la bailia, la qual e ho abiù za è trenta anni, e con stranie parole contra de me. E sì voio che vu sapià che per me ni per mia persona an abiù poche spese, za è sett'ani, in questo tempo el no me comparò ma' se no doe gonelle, nì no me camparò ma' ni mantello nì pellizza Per la qual cosa, fradel me, e ve digo cossì che vo pe me padre e per mia madre et per me fradello e fazove a saver la condicion mia, e sì sum ferma de venire ~ star voscho, quando el ve piaza, e rendive certo che no voio star qui e quando el ve piaza, che debia esser vo scho, e io s'il voio voluntera. E queste cose, s'el ve pa. re che debia far a savere al Signor messer Bernabò ni a madona, pregove che vu me mandè el modo che ve para che sia ben. E pezo me fa ch'cl desvia Lodoigo, nì no vole cho leza nì chel faza alcun ben, el qual serave bon horn s'el fosse a bone man pregove che ve sia recomandà e che vo mostrè che no sia dentro un zocho e ch'el para che abia chi me possa dare del pan. La vostra serore, Thomasina da Coreza (4)
Di Guardason, adì XXV d'aosto
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