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Andrea Mantegna |
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Secondo un'ipotesi formulata dalla storiografia locale (Bertolini 1930, Ghidiglia Quintavalle 1959, Ghidini 1976) il dipinto potrebbe aver fatto parte della raccolta dei conti di Correggio, andata poi dispersa con la caduta del principe Siro (1634). Da questi sarebbe finito nelle mani dei fratelli Contarelli, amministratori di una parte (lei beni del prinicipe. Anche se l'importanza dei Contarelli nelle ultime vicende di Siro ci sembra abbastanza trascurabile, il quadro entra probabilmente in loro possesso perlomeno nella seconda metà del XVII secolo: infatti nell`Inventario dei beni di Francesco Contarelli figlio di Angelo, fatto ad istanza dei tutore (1697, AOP, Archivio Contarelli, b. 2, fase. 6) compare un "quadretto piccolo con cornici coll'effige del Salvatore". Il lungo uso devozionale dovette senz'altro danneggiare il dipinto e farne perdere la coscienza dell'altissima qualità, tanto che esso non si trova neppure menzionato nel minuziosissimo inventario dei beni dell'ultima dei Contarelli, Caterina, morta nel 1851. Finito in mezzo ad "oggetti fuori d'uso" che la Congregazione di Carità, erede della Contarelli, vendette nel 1914 a due rigattieri di Correggio, il solo quadro fu poi ceduto da questi ultimi, per 10 lire, a Carlo Foresti di Carpi, che lo offrì al marchese Matteo Campori di Modena per 250 lire. Affidato dal Campori al restauratore Moroni di Milano, il dipinto fu riconosciuto come opera del Mantegna da Gustavo Frizzoni in un suo articolo su "L'Arte" del 1916. Nel contenzioso fra vecchi e nuovi proprietari che seguì tale clamorosa attribuzione, ebbe partita vinta la Congregazione di Carità di Correggio che, con sentenza del Tribunale di Modena in date 30 gennaio - 3 febbraio 1917, fu riconosciuta proprietaria legittima ed ottenne la riconsegna del capolavoro mantegnesco (BCC AOP n. 203). L'attribuzione del Frizzoni fu generalmente accolta dai successivi studiosi di Mantegna (fa eccezione la Tietze-Conrat, la quale però afferma di non aver visto direttamente il dipinto) e definitivamente confermata dal restauro del 1959, che, nonostante i danni di un'antecedente pulitura, rivelò una grande raffinatezza nella stesura della tempera. Sul libro portato dal Cristo vi è la scritta (oggi in gran parte abrasa) EGO SUM: NOLITE TIMERE (Luca, 24, 36), e altre iscrizioni caratterizzano i bordi dipinti del quadro. A sinistra vi è la frase disposta verticalmente MOMORDITE VOS MET IPSOS ANTE EFIGIEM VULTITS MEI ("straziatevi anche voi davanti all'immagine del mio volto") in cui alcune delle lettere sono ruotate di 45 gradi verso destra: una bizzarria presente anche nelle iscrizioni sul disegno della Giuditta (Firenze, Uffizi, 1491) e sulle incisioni con Ercole e Anteo derivanti da un originale mantegnesco (Lightbown, p. 202). Sul bordo inferiore vi è un'iscrizione, in parte scomparsa, in cui si può leggere ... JA P.C.S.D.D. MCCCCLXXXXIII D/V JA. Frizzoni diede questa interpretazione: Mantinia pinxit charitate sua (oppure cum suis) domino dicavit (oppure dono dedit) 1493 die VJannarii. Secondo Liglithown invece (p. 456) la scritta va letta Mantinia Palatinus Comes dono dedit 1493 die V Jantiarii: il titolo di Conte Palatino, dichiarato da Mantegna firmando i perduti affreschi nella cappella di Innocenzo VIII in Vaticano (1490) e rintracciabile anche nella firma ANDREAS MANTINIA C.P.F. sulla Madonna col Bambino e i santi Giovanni Battista e Maddalena (Londra, National Gallery), sarebbe ribadito nelle lettere P.C. sul quadro correggese. Lightbown però nella sua interpretazione della scritta tralascia completamente la lettera s., per cui la sua versione risulta incompleta (a meno che non la si voglia integrare inserendovi la s. col significato di sponte). Filippo Todini ravvisa nel dipinto tangenze con la pittura di Giovanni Bellini e Carpaccio sottolineando il "delicato chiaroscuro, libero da qualsiasi netto contorno". Ronald Lightbown rintraccia nella pittura delle Fiandre i lontani modelli iconografici, poi trapiantati nella pittura veneta, del Redentore, e scrive che "Mantegna riveste il modello fiammingo del proprio solenne classicismo, dando rilievo alla struttura del collo e articolando quella del torace secondo le modalità della scultura antica. Tuttavia il suo Cristo conserva quel carattere di 'Uomo dei dolori' che contribuiva al fascino e all'efficacia dell'immagine originale: il fondo nero, sul quale si riflette soltanto il pallido, dorato bagliore dell'aureola, che incorniciando 2 capo di Cristo emana raggi formanti un motivo cruciforme, i boccoli scuri e gli occhi dal taglio a mandorla, tipici dell'ultimo Mantegna, sono tutti elementi che contribuiscono a infondere al dipinto un senso di pathos contemplativo". Il Redentore può a buon diritto annoverarsi fra i capolavori dell'ultimo Mantegna. La delicatezza espressa dal pittore nelle lumeggiature sui capelli e nell'individuazione dei peli della barba e degli arabeschi dorati (oggi in gran parte scomparsi) sullo scollo della rossa veste di seta moirée, contribuisce a conferire un tono di estrema raffinatezza alla tela, peraltro fortemente caratterizzata nella sua funzione devozionale dall'espressione insieme austera e malinconica del Cristo. La data 1493 è importantissima per individuare un punto fermo negli intensi e ancor oggi dibattuti ultimi anni di attività del maestro padovano, "in un periodo in cui l'artista stava tentando di trasformare il suo stile in uno nuovo che doveva presagire il classicismo del XVI secolo" (Todini). Frizzoni accostava la tipologia del viso del Redentore ai volti del Cristo sul sarcofago di Copenhagen e del san Giovanni Battista nella Pala Trivulzio (Milano, Castello Sforzesco), mentre la Ghidiglia Quintavalle ravvisava affinità con il san Michele della Madonna della Vittoria (Parigi, Louvre). Paccagnini e Todini giudicano il Redentore contemporaneo della Sacra Famiglia di Dresda, mentre Lightbown è dell'opinione che al quadro di Correggio "per la concezione di fondo e per certi particolari elementi (ad esempio i costumi di seta marezzata e il fondo nero o quasi nero)" debbano essere avvicinati il Cristo morto di Brera e le Madonne del Museo Poldi Pezzoli e dell'Accademia Carrara di Bergamo. [GPL - VP]. Bibliografia: Frizzoni 1916, pp. 65-69; Venturi 1926, p. 14; Bertolini 1930, pp. 41-43; A.O. Quintavalle 1935, pp. 22-24; Fiocco 1937, p. 76; Finzi 1949, pp. 24-25; Tietze-Conrat 1955, p. 97; Cipriani 1956, p. 68; A. Ghidiglia Quintavalle 1959 a, pp. 8-9, tav. 3; A. Ghidiglia Quintavalle 1959 b, pp. 16-17, tav. 11; Marani-Perina 1961, p. 308; Paccagnini 1961, p. 48, tav. 43; Ruhmer 1961, p. CV; Gilbert 1962, p. 9; Longhi 1962, p. 20; Camesasca 1964, pp. 41, 122; Bellonci Garavaglia 1967, p. 115, fig. 83; Berenson 1968, p. 239; Finzi 1968, p. 177, tav. 160; Ghidini 1976, p. 97, tav. 54; Adani 1976 b, s.p.; Garuti 1980, pp. 243-245; Immagini dai musei in Italia 1983, p. 132; Tutti i musei d'Italia 1984, p. 297; Guida ai musei dell'Emilia-Romagna 1984, pp. 117-118; Pirondini Monducci 1985, p. 21, tav. XIII; Todini 1985, pp. 75-76, tav. 3; Lightbown 1986, pp. 202, 456, fig. 123; Ghidini Pratissoli 1987,1). 905, fig. 8; Mendogni 1989, pp. 18-20; Christiansen 1992, pp. 230231; Ghidini-Pratissoli 1992, pp. 47-48.
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